INTERVISTA

L'attrice Sabina Guzzanti: "Isolamento, pregiudizi, trappole tecnologiche. Serve consapevolezza"

di Marco Scorzato
"Annonimus" è la sua ultima fatica letteraria
Il fantaromanzo pubblicato per le insegne di HarperCollinsSabina Guzzanti
Il fantaromanzo pubblicato per le insegne di HarperCollinsSabina Guzzanti
Il fantaromanzo pubblicato per le insegne di HarperCollinsSabina Guzzanti
Il fantaromanzo pubblicato per le insegne di HarperCollinsSabina Guzzanti

Nel vortice del progresso tecnologico, chi non sta al passo è perduto. La tecnologia è un’arma a doppio taglio: può essere leva di libertà ma anche strumento di schiavitù; una via per la giustizia ma anche un mezzo di sopraffazione. Per questo Laura Annibali, un scienziata informatica da 110 e lode, giunta alla mezza età fonda un’associazione no profit per dare formazione a chi fa a pugni con pc e smartphone. Ma un gruppo di hacker anziani, gli Anonnimus, spaventano i suoi potenziali finanziatori. Il tutto tra auto a guida autonoma e case smart governate dalla domotica, dove un computer gestisce tutto, dal frigo alla dieta, e anche le urine sono analizzate dal wc prima di ogni sciacquone. Un mondo futuribile ma non troppo, anzi «è il mondo di oggi o quasi», dice Sabina Guzzanti, attrice e autrice di «Anonnimus. Vecchi rivoluzionari contro giovani robot», 284 pagine, pubblicato da HarperCollis, una commedia molto seria che tocca temi di urgente attualità.

Sabina Guzzanti, perché ha scritto un libro su questo tema, per niente «comodo»?

Già nel libro precedente, “La disfatta dei Sapiens“ pubblicato nel 2019, avevo iniziato a ragionare sugli algoritmi, a inoltrarmi in questo mondo che per me, che non ho una formazione scientifica, non è così familiare...

In realtà sembra preparata, ne parla in modo molto chiaro...

(Sorride) Mi interessa studiare la materia dal punto di vista concettuale e filosofico. Ma io credo che tutti noi possiamo capire più di quanto tendiamo a pensare: sono tanti i temi da cui ci teniamo lontani, temendoli.

Ecco, è più il fascino per la tecnologia o il timore che questa suscita ad averla appassionata al tema?

Fascino. Non ho timore, ho fatto anche abbastanza pace con l’idea che l’umanità possa estinguersi, perché sembra che tutto vada in quella direzione. L’unica cosa che potrebbe cambiare il corso degli eventi sarebbe l’unità di tante persone, ma tutto volge all’isolamento. Anche le persone che si pensano impegnate fanno molta fatica a mettersi insieme.

A tal proposito, la protagonista del libro è una donna professionalmente affermata ma anche molto sola. C’entra con quello che ha appena detto?

La solitudine non è solo di Laura, la protagonista. È un mondo di solitudini, di “bolle”, creato in buona parte anche dalla tecnologia. Basti pensare che anche i social o Netflix sono guidati da algoritmi. È da tempo che le macchine prodotte da noi, con l’ideologia del profitto e quindi dello sfruttamento, operano in quella direzione, verso l’isolamento. Viviamo tutti nelle nostre bolle, d’informazione e di gusti culturali, siamo tutti isolati e il paradosso è che cadiamo nell’equivoco che vuole l’isolamento come una “cura”: quando diciamo “stacco la spina, ora mi guardo una serie” in realtà ci isoliamo e rinunciamo a vivere.

Il libro, fin dal titolo, evidenzia il tema del divario digitale che spesso fa rima con divario generazionale.

Anche questa è una forma di isolamento: separare le generazioni fa comodo, il giovanilismo serve a beffare i giovani, perché se tu riesci a evitare i contatti tra i giovani e chi quell’esperienza l’ha già fatta tu hai trovato il modo per sfruttarli meglio. L’umanità in realtà si è evoluta non aspettando che i geni facciano dei salti in avanti, ma grazie alle esperienze del nonno o della mamma, che fanno scuola.

Lei scrive: “La popolazione invecchia e la velocità di sviluppo tecnologico esclude sempre più persone dai diritti fondamentali”. Perché è così pessimista?

Non sono pessimista, guardo a ciò che succede. Che la tecnologia escluda si vede dall’esperienza personale di tutti noi. La tecnologia non è di per sé né buona né cattiva, come la televisione: dipende dall’uso che ne fai. Il problema è che è in mano a pochissime multinazionali private e non è soggetta a un dibattito democratico. Se potessimo tutti scegliere cosa farne, credo che la risposta sarebbe facile: nessuno lavora più e il frutto del lavoro delle macchine viene diviso tra tutti, in modo equo. E non è che tutti vogliono essere ricchissimi, anche questa è un’altra falsità ideologica: alla gente interessa vivere con la propria famiglia e i propri affetti, conoscere...

Nel libro ci sono spesso dei ribaltamenti di “ruolo”: quelli che sembrano “i cattivi” non sono così cattivi, e “i buoni apparenti” non sono affatto buoni. Una scelta narrativa o una fotografia della realtà?

Io credo che il libro ruoti attorno al tema del pregiudizio, declinato in varie maniere. Ci viene detto che la tecnologia è buona, che i gay sono per forza buoni, ma non è così... Al punto che persino i computer hanno pregiudizi, i “bias”. Nel libro, il computer di casa ce l’ha con “gli zingari”... Siamo tutti pieni di pregiudizi e queste sono tutte forme di razzismo e di chiusura. Le macchine ormai ci conoscono nei dettagli, acquisiscono dati e sanno tutto di noi.

C’è un passaggio in cui lei scrive: “la natura ci conosce da sempre senza che si sia mai fatta i cazzi tuoi”. È la natura la salvezza dal dominio tecnologico?

La natura riporta Laura, la protagonista del libro, a contatto con se stessa, con la propria identità, la porta fuori dal suo essere sempre alienata. Basta una passeggiata nel parco vicino a casa per riportarla a sentirsi viva, ad avere un contatto con la propria essenza, e non con l’identità fittizia che ci si costruisce. Credo che alla fine, come per il tema dei pregiudizi, quello che conta è avere consapevolezza delle cose.

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