l'intervista

Jacopo Veneziani

di Gian Paolo Laffranchi
«Santa Giulia mi ha cambiato la vita La Franciacorta è un museo a cielo aperto Ora l’arte deve conquistare i palazzetti»
Poliedrico Autore di libri, docente e divulgatore, Jacopo Veneziani a 28 anni è presidente della Galleria Ricci Oddi FOTO ADELAIDE CORBETTA
Poliedrico Autore di libri, docente e divulgatore, Jacopo Veneziani a 28 anni è presidente della Galleria Ricci Oddi FOTO ADELAIDE CORBETTA
Poliedrico Autore di libri, docente e divulgatore, Jacopo Veneziani a 28 anni è presidente della Galleria Ricci Oddi FOTO ADELAIDE CORBETTA
Poliedrico Autore di libri, docente e divulgatore, Jacopo Veneziani a 28 anni è presidente della Galleria Ricci Oddi FOTO ADELAIDE CORBETTA

Segni particolari: divulgatore. Che, nel 2023, deve significare anche divulgattore. «Il mio sogno? Rendere l’arte meno elitaria e più popolare. Sempre meno di nicchia. Sogno che un giorno un divulgatore possa portare la storia dell’arte non solo a teatro, ma anche sul palco del Mediolanum Forum. Se Fabio Volo può presentare i suoi libri nei palazzetti, perché no?». Può ben dirlo Jacopo Veneziani. Ventotto anni e un curriculum da favola su binari diversi ma coerenti: molto seguito su Instagram e YouTube così come dottorando alla Sorbona di Parigi, su Rai3 per «Le parole della settimana» di Massimo Gramellini ma anche neopresidente della Galleria Ricci Oddi, docente a contratto all’Università Iulm di Milano e autore di studi sulla pittura francese del Settecento oltre che di due volumi per Rizzoli («#divulgo. Le storie della storia dell’arte» pubblicato nel 2020, «Simmetrie. Osservare l’arte di ieri con lo sguardo di oggi» del 2021).
 

Arte come amor (love): quando si è innamorato di questa parola di 4 lettere?
Con la mia passione c’entra Brescia, che mi ha cambiato la vita. La biblioteca del comune in cui ho vissuto fino a diciott’anni, Lugagnano Val d’Arda, sperduto nelle colline piacentine, organizzava sempre gite in pulmino al Museo di Santa Giulia nell’era Goldin. Parlo del 2006, 2007.

Andava alle scuole medie. Abbassava di parecchio l’età media della media della gita, immagino.
Decisamente. Mi ricordo gli Impressionisti, i Maya e gli Aztechi. Fu allora che capii quanto mi piaceva l’arte. Davanti a un quadro di Van Gogh restai incantato pensando «Ma questo l’ha dipinto lui, davanti a questa tela c’era davvero l’artista». L’idea di trovarmi davanti a un oggetto che ha viaggiato nel tempo, come una maschera dorata in una vetrina. La immaginavo rinchiusa per secoli in una tomba in mezzo a una foresta, prima di riapparire davanti ai miei occhi... Trip mentali bellissimi.
 

L’arte come narrazione.
Esatto. Mi ha sempre affascinato il suo potere di aprire una porta su altri mondi.

Da allora il mondo bresciano è nel suo cuore?
Certo. Ma non solo per quelle mostre. A proposito di creature mitologiche, la stessa Pinacoteca Tosio Martinengo, rimasta chiusa per diversi anni e adesso splendida e piena di motivi d’interesse, appartiene senz’altro alla categoria. La conoscevo per fama, dopo la riapertura l’ho scoperta davvero: per gli studiosi è un vero punto di riferimento. Come ricorda Adelaide Corbetta, responsabile della comunicazione della Pinacoteca a Brescia e dell’Accademia Carrara a Bergamo, la Tosio Martinengo è l’unico museo del Nord in cui si trovano due capolavori di Raffaello. Da osservatore esterno addetto ai lavori, credo che si debba fare un plauso a chi in questi anni ha governato la città.
 

La Leonessa sta vivendo il suo anno da Capitale della Cultura con numeri importanti: quasi 5 milioni di visitatori nel primo semestre, quasi il doppio rispetto al 2022.
Io credo che Brescia stia vivendo una fase nuova. Una metamorfosi. Quando vengono a trovarmi a Milano amici che abitano da Roma in giù e gli mostro i tesori artistici bresciani, li vedo ancora stupiti: sono legati al luogo comune che vuole questa città prevalentemente industriale. Come se ci fosse poca arte, qui. Paradossale, non è così. Ma l’immagine di Brescia sta cambiando, affermandosi sul piano culturale. I pregiudizi stanno sparendo.
 

Discorso che vale anche per la Franciacorta.
Sì: in molte sue parti è un museo a cielo aperto, un museo diffuso immerso nella natura. Penso per esempio al Convento dell’Annunciata a Rovato, sul Monte Orfano. Lì c’è un supercapitolo di storia dell’arte, con l’Annunciazione di Romanino. Non dimentico il monastero di San Pietro in Lamosa a Provaglio d’Iseo, l’Abbazia Olivetana Benedettina di Rodengo Saiano. Baluardi di armonia che resistono al proliferare dei capannoni. Una forma nobile di resistenza.
 

Quando ha capito che quella dell’arte sarebbe stata anche la sua strada professionale?
Prima mi sono appassionato al racconto televisivo, poi all’arte. Da bambino mi perdevo in Sereno Variabile e Linea Verde, guardavo Alberto Angela e mi dicevo «Pensa che bel lavoro, girare il mondo per visitare bei posti gratis e raccontarlo agli altri». 

Quanto è lontano da quel traguardo?
Diciamo che mi avvicino alla meta di una vita da divulgatore anche itinerante al 100 per 100. Adesso lo faccio al 60, è già una buona percentuale.

Incontri decisivi?
Alle superiori: devo dire grazie ad una professoressa superbrava di storia dell’arte, Valeria Poli. Ho capito quanto questa disciplina fosse facilmente divulgabile, raccontabile.

Chi ama il calcio e vuol diventare tele o radiocronista da ragazzo s’ispira a Caressa e Compagnoni, Pardo e Piccinini, Marianella e Bizzotto come Repice e Cucchi. Nel suo percorso i riferimenti possono essere stati Angela e Sgarbi, Daverio e Barbero. A chi si sente più affine?
Alberto Angela, in assoluto. Poi provo a prendere alcune cose da Daverio, bravo a far emergere il lato umano, o da Caroli, abile a contestualizzare l’opera. Ma Angela è il divulgatore per antonomasia. Capace sempre, nonostante il successo, di rimanere un passo indietro rispetto al suo racconto. Una discrezione in linea col mio modo di essere. Non m’interessano le scenate dei critici ad uso e consumo della popolarità.

Com’è arrivato in televisione?
Ho iniziato a parlare di arte su Twitter, nel 2015. Dopo 4 anni di martellamenti quotidiani, al ritmo di 3 tweet al giorno, una editor di Rizzoli mi ha chiesto di fare il libro: il ponte dai social alla tv. Avevo trasformato in video alcuni capitoli; durante la pandemia ho fatto altre clip, pillole sganciate dal libro, e a quel punto sono stato contattato da un’autrice che lavorava con Massimo Gramellini: «Ti piacerebbe fare su Rai3 quello che fai sui social?». Certo.

Vorrebbe condurre un programma suo?
Non l’ho ancora fatto, ma forse qualcosa si sbloccherà.

Più complicato superare l’ostacolo Sorbona o diventare presidente della Galleria Ricci Oddi?
La Ricci Oddi mi ha chiamato per quello che faccio, per come sono. Sono complementare alla direttrice, Lucia Pini: lei ha una visione più accademica della storia dell’arte, il mio approccio è più nazionalpopolare. Molto più difficile la Sorbona, decisamente. Sono passato dal liceo linguistico europeo a Piacenza all’università di Grenoble, città a misura d’uomo, fino a Parigi con la sua infinità di musei e mostre. Un’altra dimensione. Mi sembrava di dover reimparare a vivere. Per 6 anni sono rimasto chiuso in biblioteca.

Ha analizzato tante opere: qual è stata a colpirla di più?
Gli ambasciatori di Holbein. Un parco giochi per lo sguardo: ogni dettaglio svela informazioni sui personaggi. Un romanzo scritto non a parole, ma sotto forma di pittura.

Se dovesse spiegare a un bimbo cos’è l’arte?
Topolino, cosa di cui vado fiero, mi ha chiesto di curare una raccolta di fumetti su storie legate a dipinti. L’arte per me è un messaggio in bottiglia. È sempre e comunque un tentativo di comunicare.

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