L'incontro della domenica

Stefano Massini

di Gian Paolo Laffranchi
«Il Tony Award mi ha cambiato la vita Torno a Ponte di Legno con le mie storie Sono come manuali di sopravvivenza»

Dal «lago di libri» al «sentiero invisibile». Dal Garda alle Valle Camonica. Dopo aver presentato «Manhattan project» a Desenzano a giugno, questa sera sale in montagna Stefano Massini, autore pluripremiato per eccellenza: Tony Award (il premio Oscar del teatro americano) con «The Lehman Trilogy» nonché Drama League Award e Outer Critics Circle Award nel 2022, ormai di casa nel Bresciano. «Una cosa veramente bella, la mia prima volta a Desenzano - sorride il drammaturgo, scrittore e “raccontastorie” -. Tanta gente, una splendida atmosfera, un lago che mi ha fatto innamorare. Il mese prima sono stato anche a Gavardo».
 

Adesso scopre Ponte di Legno: alle 21 l’attendono al Palazzetto dello Sport.
In realtà conosco Ponte di Legno da tempo. È un ricordo d’infanzia, avevo 8 anni quando venivo qui in vacanza con i genitori, i nonni. Ricordo l’Adamello, il Tonale, un torrente dagli argini un po’ scoscesi in mezzo al paese.

Dalla Valle Camonica al Garda c’è un bel pezzo di strada, in tutti i sensi. Come dalla Bassa alla Franciacorta, dalle valli alle città, da un lago all’altro. Brescia con la sua provincia è un’eccezione autentica.
Assolutamente. Fra l’altro ci sono luoghi anche meno conosciuti, penso al lago d’Idro. Grazie al mestiere che faccio viaggio molto e ho avuto modo di scoprirlo. Altra cosa che apprezzo: quando sono stato a Librixia, in città, ho notato una grande risposta della gente.

Il suo successo dura da tempo. Quando ha capito di aver svoltato davvero?
Il successo di Lehman Trilogy ha contato, fare televisione anche. Ma la vittoria del Tony Award ha cambiato tutto.

Primo autore italiano a vincere il premio per eccellenza per opere teatrali e musical: come salire sul trono del Broadway Theatre.
Quando hanno aperto la busta, sono sincero, mai avrei pensato che la mia vita professionale si sarebbe trasformata così radicalmente. Per tutti da allora sono «quello che ha vinto in America».

E sì che fra testi, produzioni e spettacoli teatrali, di riconoscimenti da quando era assistente volontario di Luca Ronconi al Piccolo Teatro di Milano ne ha collezionati parecchi: il Premio Flaiano, il Premio Tondelli e poi l’Ubu, il Campiello, il De Sica...
Vero. Ma il Tony Award ha tutto un altro impatto. Il momento più emozionante della mia carriera. Ed è stato tutto assolutamente inaspettato. Un’eventualità che era esclusa dagli stessi organizzatori.

Ne è certo?
Sì. A maggio, quando uscirono le candidature, per me era già come toccare il cielo con un dito. Un’opportunità incredibile, poter sedere con i grandi del teatro. La cerimonia finale era fissata il 12 di giugno. Alla fine di maggio mi ammalai, un’allergia tremenda, temevo fosse Covid, ero debolissimo. Un componente del mio staff avvertì gli organizzatori americani: «Massini non sta bene, forse non ce la fa a presenziare».

Quanti giorni mancavano alla premiazione al Radio City Hall?
Cinque. La risposta fu di non preoccuparmi: «Ci dispiace molto non stia bene, saremmo felici ci fosse, ma se non è in forze ci rendiamo conto delle difficoltà, del volo intercontinentale». Del resto quand’era capitato che un non americano vincesse per la drammaturgia? Nel 2018 con J.K. Rowling. Un’inglese, un’eccezione. Figurarsi un italiano!

Ha fatto come Marcell Jacobs nei 100 metri alle Olimpiadi: trionfo a sorpresa e tutti stesi ad applaudire.
La mattina stessa del 12 giugno in albergo è venuto uno dell’organizzazione a spiegarmi gli aspetti tecnici della cerimonia che ci attendeva: «Chi vince salirà sul palco, riceverà il premio e anziché tornare in platea andrà nello studio ricavato dalla Cbs per essere intervistato in diretta una decina di minuti anche su Paramount Channel».

Una quarantina di milioni di spettatori.
Sì. Non pensavo mi riguardasse. Durante la premiazione un componente dello staff è arrivato tutto trafelato a chiedermi di spostarmi da dov’ero seduto a un posto più vicino al corridoio. Il regista Sam Mendes e gli altri vicino a me a quel punto hanno iniziato a farmi l’occhiolino.

Sensazione?
Mi ha preso il panico! All’idea di 10 minuti in diretta sulla Cbs: non mi ero preparato nulla, che figura avrei fatto? Panico totale. Vicino a me avevo Hugh Jackman, un mito, e anche Lawrence Fishburne: vedendo che non mi alzavo mi disse «Congratulations». L’avrei mandato a quel paese... Poi sono andato sul palco e da quel momento è tutto diverso. 

Un racconto di vita da parte del maestro dei racconti. Alla fine ogni narrazione è anche un manuale di sopravvivenza?
Sì. All'uscita dal Radio City Hall piovigginava, aspettavo il taxi con Mendes quando arrivò un signore di mezza età con suo figlio. «Siamo portoricani, viviamo qui da due generazioni: mio figlio si è innamorato dell'economia dopo aver visto il vostro spettacolo, lo iscriveremo all'università sostenendolo con tutte le nostre possibilità». Mi ha colpito molto.

L'America è il Paese delle possibilità ma anche un Paese senza troppi preconcetti al cinema e a teatro. Ha fatto diventare una star Sabrina Impacciatore, che in Italia doveva scrollarsi di dosso gli inizi televisivi. Così come Ambra Angiolini, fra le protagoniste della trasposizione cinematografica del suo «7 Minuti», ha dovuto scalare le montagne per dimostrarsi l'attrice che è sia a teatro sia al cinema.
Verissimo. Ambra è veramente bravissima e questo è veramente un problema molto italiano. Il teatro qui è nato a corte, privilegio dei ricchi, tutt'al più dell'alta borghesia, mentre in America come in Inghilterra è un'altra cosa.

Più pop.
Decisamente. Quando ho visto Lehman Trilogy a Londra, a due passi dal Parlamento, forte di un contratto firmato dalla regina Elisabetta, sono rimasto basito, di più, scandalizzato: una famiglia di Sikh durante il secondo intervallo se n'era andata al bar-ristorante a prendere cartocci di pollo fritto e lattine per poi consumare il tutto durante lo spettacolo. Manco fossimo al cinema. Poi ho capito. Lì il teatro è cultura popolare, fa parte della vita della gente.

A Ponte di Legno parlerà di questo e di cos'altro?
In questo incontro dialogherò con Stefano Malosso, il direttore artistico. Analizzeremo insieme i misteri della narrazione. Il segreto della condivisione, fin dai tempi dei graffiti rupestri che in Valcamonica non mancano. Il grande punto di partenza e di arrivo di quello che faccio. Ho cambiato tante volte linguaggi, narrativa e saggi, teatro, cinema e televisione, ma la voglia di raccontare c'è sempre stata, quindi alla fine non ho mai cambiato pelle.

Alla fine contano le idee: cosa pensa del caso-Bigio? Va riposizionato in piazza Vittoria oppure no?
Parlo in generale, perché dovrei approfondire a lungo la questione: da un lato ritengo sbagliata la rilegittimazione, da parte della maggioranza che ha legittimamente vinto le elezioni, di un passato che non deve tornare, terrorismo nero compreso; ciò detto, se Goebbels amava Mozart non è che dobbiamo smettere di ascoltarlo. L'arte non è mai colpevole.

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