Storie di artigiani

La cappellaia Sara Monteverdi: «La mia creatività da Londra a Lonato, le mani e il gusto mi guidano nel lavoro»

di Giada Ferrari
Sara Monteverdi, classe 1966, intreccia la sua vita con fili e cuciture dal 1997. Da allora, si è dedicata con passione alla creazione di cappelli

Si definisce «cappellaia», anche se in gergo tecnico si direbbe «modista», Sara Monteverdi, classe 1966, che intreccia la sua vita con fili e cuciture dal 1997. Da allora, si è dedicata con passione alla creazione di cappelli, trasformando scampoli di tessuto in vere e proprie opere indossabili. La voglia e la passione di creare e di esprimersi trova sfogo attraverso l'arte della modisteria sartoriale ed i cappelli si fanno mezzo attraverso cui Monteverdi plasma la propria creatività.

Come è nata la passione per la modisteria?
Diciamo che parte da lontano. Ero una studentessa di lingue, ho studiato inglese e russo e per questo motivo ho abitato sia in Russia sia in Inghilterra. A Londra condividevo l’appartamento con alcune ragazze che per hobby facevano cappelli. Sono tornata in Italia e inizialmente ho continuato il mio lavoro da interprete, poi è scattato qualcosa in me, volevo usare le mani.

Ha deciso di iscriversi ad un corso?
Ho risentito queste amiche londinesi e loro mi hanno dato due dritte, qualche consiglio. Non sono rimasta con le mani in mano, ho comprato la macchina da cucire e semplicemente mi sono messa a creare cappelli.

Quindi non c’è una tradizione familiare?
In realtà in famiglia ci sono state due sarte professioniste e una modista. In particolare, mia madre lavorava in un maglificio e d’estate andavo con lei in laboratorio, a dare una mano. Quindi i filati hanno sempre fatto parte del mio passato, la prima macchina tagliacuci l’ho vista lì. Poi ho fatto un corso di sartoria a Milano, anche se devo dire che è quando ho iniziato a fare materialmente cappelli che mi è partita la vera creatività e nel tempo ho trovato il mio stile. [

Ci racconta del suo laboratorio?
Sono «operatore dell’Ingegno», quindi il mio laboratorio è casa mia, a Lonato... Ho iniziato a portare le mie creazioni nelle fiere musicali. Adesso giro i mercati di varie città italiane del nord che dedicano giornate specifiche al «fatto a mano».

Ma nel concreto come procede la realizzazione di un cappello?
Anzitutto va fatta una distinzione tra modisteria tradizionale che usa feltro e paglia e modisteria sartoriale che usa gli altri tessuti: quest’ultima è la mia. Uso prettamente lana d’inverno e cotone d’estate, per gli interni canapa e cotone di camiceria per le fodere, questo è il mio tratto distintivo. Quindi per realizzare un cappello si parte dalla scelta del tessuto, poi si passa al taglio dei pezzi sui modelli di carta. Si modellano sulle teste di legno, si assembla con la macchina da cucire e si stira, tantissimo.

E le finiture?
Tutte fatte a mano. Sul 90 % dei miei cappelli metto i bottoni, li adoro, quindi li uso proprio come elemento decorativo. Insieme a passamaneria o fibbie.

Invece, la parte del processo creativo che ama di più?
La scelta dei tessuti. La ricerca è la parte che mi permette di accendere la fantasia, andare per scampoli è la mia fonte di ispirazione. Vedo proprio quello che potrei realizzare.

Lavora anche su misura?
Si, tantissimo. Anche perché in fiera capita di non avere la misura oppure il cliente preferisce un altro colore. Quindi prendo la circonferenza e poi lo confeziono.

Le è mai capitata una richiesta strana?
Un signore di Milano aveva dei rasta lunghissimi, gli arrivavano fino ai piedi. È venuto da me e mi ha chiesto un cappello su misura che contenesse tutti i sui capelli. Non è stato semplice, ma lui sapeva benissimo quali erano le sue necessità. Perciò ho creato il modello e fatto varie prove, anche se la cosa che ho apprezzato di più è che per il tessuto di è fidato del mio gusto. Mi piace dire che vivo delle mie mani e del mio gusto.

Ha mai pensato anche di insegnare?
Lo faccio già, tengo alcuni laboratori dove insegno a chi ha voglia di imparare. L’artigianato per me è condivisione e talvolta, in alcuni settori come la modisteria, i modisti non condividono mai i segreti del mestiere, ed è un peccato.

Lei è anche presidente di un’associazione? 
«Le fate ignoranti» nasce sulle ceneri di un’altra associazione sempre fondata da artigiane. E nello stesso anno, il 2013, è nato l’evento «L’ho fatto tutto io». All’inizio esponevamo in Carmine, poi piano piano siamo cresciute e il Comune ci ha aiutato tantissimo, proponendoci di spostarci varie piazze due volte a semestre.

Ora quanti artigiani vengono in mostra?
Gravitano nella nostra area parliamo 130 artigiani che provengono da tutto il nord e centro Italia. In particolare, siamo donne, circa l’80%.

Si aspettava tutto questo successo?
No! Abbiamo iniziato in sordina, poi abbiamo capito che c’era molto interesse per il fatto a mano. Personalmente, lo collego al fatto che le persone si rendono sempre più conto dei difetti del sistema «grande distribuzione» e dei conseguenti danni all’ambiente.

Quindi c’è anche un’anima di sostenibilità?
Le persone stanno capendo che il fast fashion incide in maniera negativa. Al contempo, noi ci siamo resi conto che la nostra creatività poteva avere anche un impatto positivo su ambiente e filiera. Inoltre, hai a che fare direttamente con il consumatore finale, ed è uno scambio essenziale. Il bello della bancarella è che ti permette di incontrare le persone nei loro momenti felici, quando sono libere e spensierate. Si allacciano amicizie ed è proprio divertente.

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