«Dopo aver ucciso
i figli non tentò
il suicidio»

di Mario Pari
I fratellini Davide e  Andrea Patti uccisi dal padre a Ono San Pietro
I fratellini Davide e Andrea Patti uccisi dal padre a Ono San Pietro
I fratellini Davide e  Andrea Patti uccisi dal padre a Ono San Pietro
I fratellini Davide e Andrea Patti uccisi dal padre a Ono San Pietro

È un nuovo, inquietante, capitolo. Una nuova ricostruzione di quanto è accaduto a Ono San Pietro la mattina del 16 luglio 2013. Quel giorno due fratelli, Andrea di nove anni e Davide di dodici furono uccisi e dati alle fiamme. Per il duplice omicidio è stato condannato all’ergastolo il padre Pasquale Iacovone. La pena è stata confermata in appello.

IL RESPONSABILE del duplice omicidio, nella ricostruzione che fino ad oggi era stata ritenuta più verosimile, dopo aver ucciso i figli si sarebbe dato fuoco rimanendo ustionato su gran parte del corpo. Pasquale Iacovone lottò in effetti a lungo tra la vita e la morte nel reparto grandi ustionati dell’ospedale di Padova. Le sue condizioni sono poi gradualmente migliorate al punto di consentirgli d’essere presente al processo d’appello e di rilasciare dichiarazioni durante l’udienza. Attualmente è rinchiuso nel carcere di Opera.

La ricostruzione della tragedia consumata nell’abitazione di Ono San Pietro è stata modificata dalla Corte d’assise d’appello di Brescia, presieduta da Enrico Fischetti che ha depositato le motivazioni della sentenza letta il 13 novembre scorso. E il contenuto introduce un elemento di novità: Pasquale Iacovone non intendeva suicidarsi.

IL PUNTO DI PARTENZA secondo la corte d’assise d’appello è che «l’imputato, spinto da rancore ed odio inaudito verso la moglie, da lui tormentata e molestata per oltre un anno, aveva deliberato di imporle un’ultima e definitiva sofferenza: uccidere i figli ed assaporare il gusto tremendo di vederla soffrire in modo indescrivibile di fronte ai corpi straziati e carbonizzati degli stessi». Si tratta quindi di una vendetta, in particolare «una vendetta disumana» che «non poteva comprendere una attività suicidiaria perchè l’imputato, per assaporarla, doveva vedere la compagna in faccia per godere della sua sofferenza; e tale comportamento ha tenuto anche nel corso dell’udienza di appello, dopo un vano tentativo di sottrarsi lucidamente al giudizio, guardando la moglie ancora una volta piegata nella sua disperazione senza rimedio». In quanto alle reali intenzioni viene spiegato nelle motivazioni che: «l’opera di mascheramento della reale dinamica dei fatti è dimostrata dalla circostanza che la maggior parte delle fiamme e dei danni hanno coinvolto la camera da letto e, particolarmente il letto dei bambini, dove l’imputato al fine di essere sicuro del risultato, ha posizionato sotto i poveri corpi dei figli quattro pezzi di stoffa imbevuti di benzina».

Ci sono poi quegli accendini «trovati, vicino a due telefonini, sul lavello della cucina, ma ben allineati e lontani dalla porta della camera da letto». Viene poi considerato di particolare importanza il fatto che: «la porta della camera da letto si sia bruciata solo dalla parte della camera da letto e sia rimasta completamente indenne dalla parte dell’antibagno» e questo induce a ritenere che «l’incendio sia stato innescato con particolare attenzione nella camera da letto». Ma «ciò che non può essere condiviso, in ogni caso, è che lo Iacovone fosse tecnicamente consapevole degli effetti dei vapori della benzina in ambienti chiusi ed abbia consapevolmente aspettato la deflagrazione».

Quindi, «quello che ha sorpreso l’imputato è stata la deflagrazione, causata dal deposito dei vapori nel corso di un non lieve periodo di tempo». Un’esplosione «che è avvenuta dopo che Iacovone non solo aveva chiuso la porta della camera da letto, ma si stava avviando all’uscita della porta finestra per trarsi in salvo». Parole che non lasciano spazio a dubbi su quale sia la ricostruzione operata dalla corte secondo cui «parlare di una torcia umana che ha innescato l’incendio appare incompatibile con tutto quello che si è detto e particolarmente con l’attività posta in essere nella camera da letto. Che lo Iacovone si fosse cosparso di benzina è circostanza che non può essere esclusa secondo i giudici ma «tale attività - si legge ancora nelle motivazioni - si coniuga perfettamente con la volontà dissimulatoria». E la tesi del suicidio dopo l’omicidio, «trova il suo più grande ostacolo proprio nell’atteggiamento dell’imputato» con la «poco credibile amnesia retrograda».

Suggerimenti