L'INTERVISTA

Idris: «Io, il primo nero bresciano diventato famoso. Tra Francia e Italia? Tifo Italia»

di Gian Paolo Laffranchi
Brescia, la Juve, i Pooh e la Rai: «Non sono stupito dell'addio di Fazio»
Idris nella redazione di Bresciaoggi
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Idris nella redazione di Bresciaoggi
Idris nella redazione di Bresciaoggi

«Il primo nero bresciano famoso». Molto prima di Mario Balotelli. «Mi piace definirmi un immigrato culturale: sono venuto in Italia perché amavo gli Etruschi», ricorda oggi Edrissa Sanneh, per tutti Idris. Giornalista e opinionista, 72 anni di età, italiano da 51. «Potevo scegliere fra due borse di studi, una negli Stati Uniti e una a Perugia. Ho fatto il deserto del Sahara, ho preso un aereo per volare a Roma: avevo vinto il premio per la letteratura assegnato dal presidente della Repubblica del Senegal. Poi da Perugia mi sono trasferito a Brescia, ho finito gli studi, ho cominciato a lavorare come dj nelle discoteche e nelle radio. Ho scelto l’Italia. Ho scelto la cultura». 

1972. Il primo flash?

«Bianco: ovunque mi girassi, vedevo gente bianca. Non ero abituato a vederne così tanti, soprattutto non ero abituato a non vedere nessun nero!

La prima canzone ascoltata qui?

Il primo brano che mi viene in mente, vediamo… Questa sera stranamente su / eccitata più che mai…

«Quando una lei va via», dei Pooh. 1972.

Appunto: ero appena arrivato. A me l’Italia è parsa il Bengodi. Me ne sono innamorato.

Il primo film?

Sinceramente, non amo tanto il cinema.

La prima partita vista in Italia?

Non ricordo quale, ma di sicuro una della mia Juve. Tifavo bianconero già in Senegal.

Formazione di allora: Carmignani, Spinosi, Marchetti; Furino, Morini, Salvadore; Causio, Haller, Anastasi, Capello, Bettega. Allenatore Vycpalek, direttore generale Allodi, presidente Boniperti.

Sono diventati quasi tutti amici miei, tranne Haller direi. Sono stato molto legato a Trapattoni, poi. E fu Boniperti a chiamarmi in quanto grande tifoso della Juventus, telefonando a casa mia. Rispose mia moglie. «Ha chiamato il presidente», mi disse: «Seh certo, non prendermi in giro».

Invece. 

L’inizio di una favola. Sono entrato a far parte della famiglia bianconera.

A Brescia invece è entrato forte dei suoi meriti scolastici: secondo africano registrato ufficialmente come studente in Questura, successivamente il primo a dar vita alla Consulta per gli immigrati.

Il primo a diventare direttore di una televisione privata, il primo a diventare vice direttore di una radio privata... E ho collaborato a lungo proprio con «Bresciaoggi», scrivendo di musica e immigrazione. Dopo aver vinto «Star 90», concorso per nuovi talenti su Canale 5, ho acquisito un po’ di notorietà sulla Rai come primo giornalista tifoso.

Tanta televisione, dagli inizi con le emittenti locali alla fama nazionale con «Quelli che il calcio» e non solo. L’ha stupita l’addio di Fazio alla Rai? 

No. È il sistema, la politica occupa i posti con i suoi uomini di governo in governo. Fabio faceva un’ottima raccolta pubblicitaria ma l’audience non era da grandi numeri, parliamo del 12 per cento. E già diversi anni fa voleva andarsene a La7, lasciandoci a terra. Non sono stupito. Per niente.

Il futuro della tv? 

Le reti tematiche. Hanno già più successo delle reti generaliste. Faccio zapping e trovo poco d’interessante, mi fa ridere solo Crozza. C’è troppo trash. Sulle piattaforme è diverso.

Se fosse un ragazzino oggi, su cosa si butterebbe?

Sono un creativo naturale, un pensatore nato. Mettere insieme qualche idea e creare un format non sarebbe un problema. M’inventerei qualcosa di attuale, anzi di innovativo.

La nuova società è un melting pot molto diverso rispetto a cinquant’anni fa: l’integrazione è realtà?

È un caleidoscopio che fa bene al cuore. Ai miei tempi il primo compagno africano che conobbi, un sudanese, diventò subito amico mio. Eravamo rari. Ora è un’altra cosa.

Anche se chi è di seconda generazione viene spesso ancora definito in base alla provenienza d’origine?

È così, non bisogna prendersela. Io sono nato in Gambia e cresciuto in Senegal, ma se torno là sono l’italiano. Non è un’offesa: quelli come me hanno una doppia identità. Ero venuto in Italia con l’idea di laurearmi alla Statale per poi tornare in Africa, ma mi è nata una figlia, mi sono riscoperto disc jockey dopo i primi esperimenti in patria, ho cominciato a lavorare, ho messo su famiglia, piantato radici a Bedizzole e una cosa tira l’altra: sono ancora qui, ben felice di esserlo.

Cosa pensa di quello che è accaduto nei giorni scorsi in Francia, dei disordini seguiti all’uccisione del diciassettenne Nahel da parte di un poliziotto? 

Non mi meraviglio neanche della raccolta fondi in favore del poliziotto: in Francia c’è una sacca di estrema destra. Nonostante una lunga storia d’immigrazione. I nordafricani, soprattutto gli algerini, non sono amati: lo so perché l’ho riscontrato di persona, sono stato tante volte in Francia. Si è saputo che anche la nazionale francese che vinse il Mondiale in casa nel ‘98 era divisa in clan: passano gli anni, ma le distanze rimangono. Ci sono ragazzi algerini che fanno un gran casino, ma questo non giustifica i poliziotti estremisti che esagerano. Teniamoci stretta l’Italia!

Il sogno? 

Poter essere un benefattore, un filantropo, vivendo a lungo con mia moglie e con le mie figlie.

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