Elia Moutamid

«Alla conquista dell’America con Maka Il cinema italiano non conosce confini se racconta la verità delle nostre vite»

di Gian Paolo laffranchi
Elia Moutamid: regista rovatese, 41 anni, fra Geneviève Makaping e Simone BrioniLiving in America Moutamid negli States con il suo cinema
Elia Moutamid: regista rovatese, 41 anni, fra Geneviève Makaping e Simone BrioniLiving in America Moutamid negli States con il suo cinema
Elia Moutamid: regista rovatese, 41 anni, fra Geneviève Makaping e Simone BrioniLiving in America Moutamid negli States con il suo cinema
Elia Moutamid: regista rovatese, 41 anni, fra Geneviève Makaping e Simone BrioniLiving in America Moutamid negli States con il suo cinema

Alla conquista dell’America, atto primo e secondo: «Un mese fra ottobre e novembre, un altro tra febbraio e marzo». Così Elia Moutamid ha varcato i confini con il terzo lungometraggio: «Maka», terza tappa (dopo «Talien» e «Kufid») di una carriera già forte di riconoscimenti da regista (oltre che da attore). Passato in scioltezza il rodaggio di rassegne in Svezia e in Grecia, il suo ultimo film prodotto da 5e6 srl e Stony Brook University è stato scritto da Simone Brioni, bresciano come Moutamid ma ormai statunitense adottivo (vive a Long Island), che alla luce delle sue pellicole precedenti si è rivolto a Elia per raccontare la storia di Geneviève Makaping traendo spunto da un libro autobiografico («Traiettorie di sguardi»). Il coraggio e la forza della prima telegiornalista nera d’Italia, come Maka si è fatta conoscere in Calabria.

Com’è andato il tour di presentazione?
Magnificamente. Ringrazio chi ha concepito quest’operazione che ha consentito di mostrare in lungo e in largo in America un film collettivo. Simone Brioni, bresciano, mi ha fatto un po’ anche da manager. Se ho stabilito contatti interessanti, importanti, negli Stati Uniti, lo devo a lui. Mai avrei pensato di andare lì, fare un tour cinematografico e addirittura poter pensare a produzioni future, progettandole insieme.

Elia Moutamid: regista rovatese, 41 anni, fra Geneviève Makaping e Simone BrioniLiving in America Moutamid negli States con il suo cinema
Elia Moutamid: regista rovatese, 41 anni, fra Geneviève Makaping e Simone BrioniLiving in America Moutamid negli States con il suo cinema

Quanti Stati ha visitato?
Più di 10 Stati. Un viaggio bellissimo per una circuitazione soprattutto accademica: il sistema universitario americano, completamente diverso dal nostro, prevede che in ogni campus ci siano un cinema e un teatro aperti al pubblico, non solo agli studenti. Una soluzione distributiva che funziona molto per il cinema underground e indipendente.

In Italia sarebbe un sistema applicabile?
No, purtroppo: generalmente non ci sono cinema nelle università, mancano le strutture e non ci sono risorse per cambiare le cose. Sta di fatto che qua suonerebbe strano dire «Vado a vedere un film all’università», mentre là è assolutamente normale. E per chi fa cinema è davvero esaltante. Ho fatto tutta l’East Coast, e un’incursione nel centro, in Colorado, per poi nella seconda tornata esplorare la West Coast, la California. Oltre a «Maka» c’è stata l’occasione di portare «Talien», il mio primo film. Ho avuto l’opportunità di proiettarlo a New York e a San Francisco, città-cardine molto rappresentative rispettivamente dell’Est e dell’Ovest, che sono profondamente diversi. Lo spirito hippy, liberal, è molto californiano. A San Francisco è nato il ’68. Il free speech, il politically correct... Tre quarti del Pil americano, inoltre, si concentra in California: tutto l’hi-tech è lì.

Sedotto dal fascino di New York?
Certo, anche se New York non è la fotografia dell’America. È un meraviglioso fritto misto di culture.

Come Berlino non è Germania?
Esattamente. E basta allontanarsi di 30 chilometri da New York per scoprire un altro mondo. Straniante. Vai là con il tuo bagaglio culturale, frutto fondamentalmente di film e telefilm, ritrovi immagini iconiche ma quando cominci ad essere ospitato nelle case ti accorgi di tutte le differenze.

Una fra tutte?
I soldi: in America sono l’argomento principale. Si parla di soldi ovunque. L’America è fondata sul capitalismo e per loro non esiste un’accezione negativa in questo. Anche gli artisti hanno un planning. Devi capire la mentalità, altrimenti non smetti di giudicare e non va bene. È una realtà moderna e mi sono trovato bene ovunque.

Riscontri?
Ottimi. Sono rimasto felicemente sorpreso: andavo in un mondo saturo di cinematografia black, il rischio di passare inosservati c’era, mi aspettavo un’accoglienza più tiepida. Non è stato così, perché gli spettatori americani sono rimasti sorpresi a loro volta: non potevano credere che una figura come quella di Maka fosse una mosca bianca in Italia, davano per scontato il contrario.

Telegiornalista nera, caporedattrice e direttrice responsabile di un quotidiano in Italia, a Cosenza: nessuna ci era riuscita prima di lei.
Una storia fondamentale, autentica. E quando noi registi italiani raccontiamo la verità, funzioniamo. Non è un caso che il neorealismo abbia sfondato oltre i confini. Abbiamo insegnato a fare cinema al mondo, americani compresi, con giganti come De Sica, Rossellini, Fellini e poi Monicelli e Petri che è il mio preferito. Oggi il cinema italiano gode di nuovo di ottima salute perché è tornato a raccontare la vita, la verità, la società. 

La rivincita dei documentari?
Negli ultimi anni ho sposato volentieri questo tipo di cinema. Anche in Italia si sta cominciando a capire che è un genere cinematografico importante quanto gli altri. Se volessi raccontare il Brescia Calcio, Baggio e Hagi, potrei farlo attraverso la fiction o in maniera documentaristica: è comunque cinema al 100 per 100. E quando è fatto bene, il documentario batte la finzione 40 a zero: si pensi a «Una Squadra», lineare e irresistibile nel raccontare la storia dell’Italia che vinse la prima Coppa Davis, una nazionale di guasconi brillanti, fenomenali. È tutta una questione di approccio, anche trattando di sé: nei miei lavori io non uso la mia biografia per sfogare egocentrismi, ma per raccontare chi e cosa mi sta attorno.

In «Maka» non racconta di sé.
Vero, anche se Simone Brioni mi ha chiesto di introdurre emozioni anche mie e abbiamo convenuto che sarebbe stato interessante mettermi in scena nei panni del regista che confessa i propri dubbi all’idea di girare il film.

Metacinema.
Adoro tutto ciò che è «meta». Ho pensato che Maka fosse l’occasione giusta. È la prima volta che dirigo qualcosa che non ho scritto e mi è piaciuto molto. Vista la storia di Maka, non volevo sbagliare una virgola. Le ho detto «Convincimi a fare questo film». Abbiamo scoperto di avere tratti caratteriali in comune: è una provocatrice autoironica, se fiuta razzismo o falsa retorica è implacabile. Lo stesso faccio io, che ho origini marocchine ma mi definisco prima di tutto un bresciano e utilizzo il dialetto per disintegrare le discriminazioni. Con il dovuto tatto e altrettanto rispetto, è giusto rompere schemi e luoghi comuni.

Prossima sfida?
Sto scrivendo il prossimo film e spero di cominciare a girarlo presto fra Italia, Marocco e Stati Uniti per chiudere la mia trilogia autobiografica, dopo «Talien» e «Kufid», e impegnarmi su altri fronti cinematografici. Come si intitolerà? Forse «Masir». In arabo significa percorso, destino. Mi auguro veda la luce nel 2025.

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