Renzo Bertasi

«Dalle turiste straniere in bikini al camping alla notte Mundial con i Rolling Stones la vita è un viaggio da fotografare con ironia»

di Gian Paolo Laffranchi
Ironicamente onirico Renzo Bertasi sa scattare fotografie come performance, con spirito inconfondibilmente visionarioDa Lazise a Soiano Bertasi fotografa da quando aveva 9 anni
Ironicamente onirico Renzo Bertasi sa scattare fotografie come performance, con spirito inconfondibilmente visionarioDa Lazise a Soiano Bertasi fotografa da quando aveva 9 anni
Ironicamente onirico Renzo Bertasi sa scattare fotografie come performance, con spirito inconfondibilmente visionarioDa Lazise a Soiano Bertasi fotografa da quando aveva 9 anni
Ironicamente onirico Renzo Bertasi sa scattare fotografie come performance, con spirito inconfondibilmente visionarioDa Lazise a Soiano Bertasi fotografa da quando aveva 9 anni

Fa quello che ha sempre fatto, oggi come ieri e sicuramente domani: fa arte. Nonostante tutto, verrebbe da dire se il discorso non riguardasse chiunque in qualsiasi campo, ché gli ostacoli da superare nella vita non mancano mai. Ma nel suo caso erano un po’ più alti del consueto. «Avevo 15 anni, ero orfano di entrambi i genitori e vivevo da solo», racconta Renzo Bertasi. Oggi come allora sereno, deciso, concentrato. E autoironico. «Sono stato fortunato, se fossi stato ragazzino oggi non mi sarebbe stato possibile - sorride -. Stavo da solo in un bilocale, vivevo, studiavo e lavoravo senza che nessuno avesse a che dire. Oggi mi prenderebbero e affiderebbero chissà dove». Nato a Lazise 74 anni fa e residente a Soiano, una vita sulle sponde del Garda ma anche parecchio altrove, in un’artistica escalation: i ’70 consacrati alla fotografia sociale, negli ’80 le prime sperimentazioni sul negativo, poi i corsi tenuti per istituzioni pubbliche e private, una ventina di cataloghi e un paio di volumi di ricerca, nel curriculum mostre internazionali dalla Cina alla Svezia, in Germania e in Austria come in Spagna. Progetti immaginifici da «Il corpo come paesaggio e il paesaggio come il corpo» a «Tensioni – bolle di sapone», quest’anno da «Superamenti e visioni» a Peschiera a «Rayografie» a Brescia. «Sono sempre stato molto aperto», sottolinea Bertasi, che lavora con gruppi di attori per creare performance surreali ispirate dalla letteratura, dalla musica e dal cinema, come «Il mondo di Maigret» e «Romanzo Metafisico» in bianco e nero. Delle sue opere, 750 costituiscono un fondo al Centro studi e archivio della comunicazione di Parma. Un viaggio infinito da cantastorie tra sogno e visione, senza meta ma oltre, molto oltre il punto di partenza. «Ero un bambino e già sapevo di voler fotografare», ricorda.
Come ha cominciato?
Non sono stato io: la fotografia ha trovato me. A 9 anni mia madre faceva la bügada: si lavavano le lenzuola con la cenere, le si scaldava in un mastello di legno. Negli anni ’50 sono arrivati i detersivi, in promozione con regali assortiti: ebbi così la mia prima macchina fotografica. Una Bencini, nel ’58/59.
Appassionato da subito?
Di più. Era arrivato in paese a Lazise, nel frattempo, un fotografo mantovano, e sempre a Lazise era sorto uno dei primi camping d’Italia. Negli anni ’60 scoprivamo così le ragazze, olandesi, tedesche, danesi, tutte al lago in bikini! Io ragazzino andavo là e le fotografavo con la mia macchinetta di plastica. Mi sembravano alte 2-3 metri... Gli amici volevano le mie foto.
Scattò il business?
Riuscivo a venderle, per cifre irrisorie. Ho iniziato così.
E ha proseguito.
Con i figli dei fiori e il carrozzone in giro per l’Italia guidato da Marco Pannella, l’artefice del movimento, che si era fermato a Peschiera.
Altra folgorazione?
Chiaro. Intanto mi scrivevo una specie di autobiografia scherzando di quel che mi accadeva: studi da geometra interrotti (li ho ripresi dopo), servizio militare interrotto (per ragioni d’esubero e meno male, mi sarei perso tanta vita con tutte quelle tedesche, danesi e olandesi).
Tanta ironia.
Sempre, anche nelle mie performance. Credo abbia inciso il fatto che nella mia vita ho fatto 10 traslochi. Non raggiungerò mai Maigret che ne ha fatti 32, ma siccome ho 60 romanzi suoi in casa... Ne ho tratto un progetto. Prendevo la pagina del libro che leggevo, ambientavo la sceneggiatura con amici attori in piccoli corti che fissavo in un’unica immagine.
Altri lavori che sente particolarmente suoi?
È stato bello spaziare dalle committenze dei giornali sulla fotografia sociale alle sperimentazioni che sono arrivate dopo. Le mie «Bolle di sapone» hanno significato anche un successo di vendita del relativo libro. Un lavoro lunghissimo. Ho fatto sculture in vetro con l’amico Pino Signoretto a Murano, ma sono sempre rimasto legato alla fotografia. Dalle bolle di sapone sono nati anche gioielli. Dall’argento a «Uomini e ferro»: trovai fucinatori a Odolo ed ebbi il permesso da Feralpi di girare in ogni reparto, tutti i lunedì. Non che i capi reparto mi vedessero di buon occhio, come al Typhoon di Gambara, dove non mi lasciavano entrare in discoteca a fotografare. E come Bernardo Bertolucci. E come Bernardo Bertolucci.
Cioè?
Seppi dove girava Novecento e andai: «Niente scatti, al massimo puoi fare la comparsa», mi disse. I suoi bodyguard fecero il resto. Ma scoprii il taglio delle canne sul Mincio, trovando paludi su atolli che si muovevano. Affascinante. Non mi sono fatto mancare niente: collaborando con Bresciaoggi ho fatto servizi come quello su Alfio Torazzina, il «mostro» di Rivoltella, nell’82. Sempre nell’82 ho fotografato i Rolling Stones a Torino, quando Jagger predisse la vittoria per 3-1 dell’Italia sulla Germania nella finale Mundial. E un paio d’anni dopo il Verona, che vinse lo scudetto e andò in Coppa dei Campioni.
Le immagini che l’hanno impressionata di più?
In Francia, a 50 chilometri dallo sbarco in Normandia. A Oradour trovai case devastate, i 2700 abitanti erano stati tutti uccisi: colpiti alle gambe, finiti e stivati negli edifici rimasti prima di essere sepolti. Ho ancora i chiodi nello stomaco se ci penso.
Il suo modello?
Mi sono ispirato alla sensibilità per la natura di Blossfeldt come alla vocazione rivoluzionaria di Tina Modotti. Alla visione di Quintavalle, agli incontri con Lanfranco Colombo e Ando Gilardi. Alle opinioni di Gabriele Chiesa, un critico che sa. Con persone come lui è bello anche scornarsi.
Fra cent’anni esisterà ancora la professione di fotografo?
Il mestiere sopravviverà se andrà verso l’arte. Altrimenti, oggi che si sentono tutti fotografi, è una causa persa.

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