Intervista

Giorgio Baruffi

di Gian Paolo Laffranchi
«La mia passione in un clic: ho scattato un milione di foto»

Era un’urgenza, ora è un progetto, diventerà una mostra.
«Sto andando avanti senza sosta. Questa mattina ho fotografato una scrittrice, una scultrice e un attore di teatro: tre fratelli. In precedenza mi sono dedicato a pittori, musicisti, disc jockey». Basta che siano artisti.
Giorgio Baruffi si muove lungo il filo rosso di una missione ambiziosa: connettere le più disparate fonti di creatività sul territorio bresciano. Con una convinzione: «Le arti moderne dovrebbero essere insegnate nelle scuole, anche in quelle dell’obbligo». Per aiutare i talenti («e ce ne sono, qui come ovunque») a fiorire.
Nell’attesa, auspicando che presto l’Italia maturi anche da questo punto di vista, non resta che darsi da fare in proprio. Più facile, quando una spinta interiore ti muove da sempre.

Quando ha scattato la sua prima foto?
Avevo 9 anni, probabilmente. Usai la macchina fotografica che mio padre mi diede per una gita scolastica a Trento e a Rovereto. La Campana dei Caduti, il Castello del Buonconsiglio.

Conserva quella macchina?
Certo. Ce l’ho ancora, è una Kodak Retinette, funzionante. Ha ben più di mezzo secolo. L’ho anche tatuata sulla pelle, quella macchina.

Ispirato dal papà?
Sì. Mio padre Aldo non era un fotografo, di mestiere faceva il vigile mentre mia madre Ilaria pensava a crescere me e i miei fratelli, Stefano e Alberto, ma mi ha dato i primi rudimenti. Mio papà era un appassionato come tanti ce n’erano in Italia negli anni ’50, ’60. Io ho capito subito che fotografare mi piaceva.

E la passione, diventata poi decisamente qualcosa di più, l’accompagna da allora.
Non ho sempre fatto il fotografo, per vivere, ma ho fotografato con costanza, questo sì. Lo faccio da quasi cinquant’anni ormai.

La vocazione al clic assorbe e monopolizza i suoi interessi o le rimane il tempo per altro?
La lettura, da sempre. Già da ragazzo ero un lettore vorace. Un lettore onnivoro, peraltro. Sono andato all’asilo che sapevo già leggere. Ho frequentato le elementari e le medie a Rezzato, per ragioni di lavoro di mio padre, dopodiché mi sono trasferito a Forlì da solo, all’istituto tecnico aeronautico.

Voleva volare?
Sì. Quando mi chiedevano «Cosa vuoi fare da grande», rispondevo «Il pilota». Il motivo è presto detto: nel mio immaginario c’erano le feste dell’Unità, mio papà era un sindacalista, e adoravo gli Inti-Illimani. C’era il regime in Cile. Io volevo diventare pilota perché volevo andare laggiù a dare una mano. Poi però sarebbe stato difficile sostenere anni e anni di studi a Forlì, anche per una questione di costi. Ero stato in collegio un anno ma non faceva per me. Per il secondo anno i preti salesiani non mi volevano più, ma mio padre li prese in contropiede: «Non ve l’avrei più mandato io, mio figlio, in ogni caso». Intanto comunque fotografavo. Fra alti e bassi, ma sempre.

Soggetto preferito?
Non c’era. Come per i libri, non mi sono posto limiti e ho sempre fotografato di tutto. E di fatto ho sempre fatto quello che oggi viene chiamato street photography. Fotografie in giro e quando non è reportage ci vado comunque vicino.

La street photography viene meglio quando si esce a fotografare senza un obiettivo preciso?
Io lo faccio spesso e può funzionare sì, anche così.

A Brescia c’è tanto da fotografare?
Certo, ma direi dappertutto. Basta essere curiosi e osservare ciò che ci sta intorno. Io sono un fan del melting pot e in questo senso la mia città mi sta dando soddisfazioni da un po’ di anni, soprattutto nel weekend quando la gente ha più tempo, esce all’aria aperta e vive anche in ciabatte.

E c’è più gente in ciabatte in via Milano che in spiaggia, quando c’è il sole.
Per me è bellissimo. Vorrei che fosse così tutti i giorni nell’anno, non solo nei fine-settimana quando la gioia di vivere è come se festeggiasse ogni volta un po’ una vacanza.

C’è stato un momento di svolta nel suo amore per la fotografia?
Sì. Io ho sempre lavorato facendo di tutto, fino a quando dopo una delusione professionale, un’ingiustizia subita, ho colto la palla al balzo per dedicarmi a ciò che amo fare davvero.

Quanti anni aveva?
Una quarantina. E ho cambiato veramente direzione, aprendo lo studio che esiste tuttora.

Eccome. Quante foto ha scattato? Ha un’idea?
Facendo un ragionamento complessivo, direi che ho superato il milione di fotografie realizzate. Il mio archivio è enorme, perché ciò che fotografo rimane con me. Il digitale è prezioso, anche se per me una foto prende davvero vita quando è stampata.

In bianco e nero, possibilmente, giusto?
Dipende. Ma ho una predilezione per il bianco e nero, certo.

Cos’ha di più rispetto al colore?
Esattamente ciò che ha di meno. Il colore, che utilizzo e mi piace, ci mancherebbe, ma a livello di fruizione della fotografia può molto facilmente distrarre l’occhio da quello che è il messaggio, il senso della fotografia. Ogni album lo farei esclusivamente in bianco e nero, fosse per me. E comunque bianco e nero non significa piatto: puoi sempre giocare con i chiaroscuri. Il colore invecchia più facilmente, rivedi certe foto di una volta e ti chiedi come facessi a vestirti in certe tonalità, mentre il bianco e nero è per sempre. Decisamente più elegante.

La ritrattistica in cima a tutto?
È fra le cose che amo di più. Ho fatto fotografia sportiva, naturalistica alzandomi all’alba per garantirmi determinate condizioni ambientali, però l’aspetto umane prevale.

Fotografa artisti. C’è tanta arte a Brescia?
Sì, peccato che non tutti la conoscano e se ne rendano conto. Gli artisti della nostra città per la maggior parte si conoscono. Se potessi essere il tessuto connettivo per le loro relazioni, con i miei scatti, sarebbe bellissimo.

Dal Macof al Museo Nazionale, qui la fotografia è di casa.
Una città viva, vero. Forse dovrebbe svecchiarsi un po’, slegandosi ogni tanto dal passato. I grandi autori di una volta sono pilastri, meritano rispetto, stima e studio. Darei più spazio ai giovani che lo meritano.

Come Francesca Volpi?
Il suo lavoro in situazioni difficili e pericolose nel mondo è degno della massima attenzione, assolutamente.

Se lei avesse 16 anni oggi, si dedicherebbe al metaverso?
Sarei un ragazzino che vuol fotografare. Considero importante avere in mano un mezzo e poter interagire con il soggetto dei miei scatti.

La fotografia è empatia?
Sì. Interazione fra soggetti. Un gioco di squadra, come ai matrimoni: è bellissimo fotografare persone felici di stare insieme.

Se dovesse rappresentare l’anno di Brescia Capitale della Cultura in uno scatto, uno solo?
Di sicuro non farei foto-cartolina. Fotograferei un essere umano. •.

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