Majid Bita

«Il canto di dolore dall'Iran a Brescia L'arte come dissidenza e rivoluzione: è la cultura che alla fine ci salverà»

di Gian Paolo Laffranchi

Il bianco e il nero, senza negarsi il grigio. L'anima e il cuore, ma anche tanta testa. Majid Bita osserva, riflette, disegna e così nasce «il canto di dolore», capitolo espositivo che si è aggiunto al Museo Santa Giulia a «Finché non saremo libere», mostra dedicata alla condizione femminile con un focus sull'Iran (fino a domenica 28).Iraniano, classe 1985, fumettista, graphic designer e illustratore, ha plasmato una creazione partecipativa, frutto dello scambio tra l'autore, la curatrice della mostra Ilaria Bernardi, il pubblico e Zoya Shokoohi, artista iraniana già coinvolta nell'esposizione. Sono 38 racconti per immagini realizzati con acquerelli e china alternati a 13 opere. Il Comune di Brescia e la Fondazione Brescia Musei con Alleanza Cultura, in qualità di promotori, ne hanno affidato la curatela alla stessa Shokoohi che ha scelto di allestire le opere in un abaco visivo di 5 storie. Un flusso narrativo che parla di propaganda, guerra, ribellione e militanza, un instant display presentato con un talk nello spazio espositivo. Bita si è trasferito in Italia nel 2014 per dedicarsi alla pittura e ai linguaggi del fumetto, frequentando l'Accademia di Belle Arti di Bologna dove vive e lavora. Si occupa di illustrazione editoriale, storyboard per film, video musicali e film d'animazione. Considera l'atto di disegnare una forma di dissidenza e di impegno politico, come testimonia il suo graphic novel «Nato in Iran».

Com'è nata la sua passione per il disegno?
Vengo da una famiglia numerosa. Quando ci annoiavamo, potevamo prendere carta e matita e disegnare. Mi sono accorto di avere talento e questa attività è diventata la mia passione, con gli incoraggiamenti e i complimenti che ricevevo a casa, a scuola e soprattutto da parte di uno dei miei parenti che era un pittore. Grazie a lui, ho potuto apprendere meglio il disegno e le tecniche.Grafica, pittura, fumetto. Al liceo artistico e all'università d'arte ho scoperto che faticavo con la rigidità delle categorie. Studiando grafica d'arte ho affrontato illustrazione, grafica pubblicitaria, incisione e anche pittura. Per il fumetto, invece, l'esperienza era nulla. In Iran era un'arte emarginata, negata e censurata. Erano disponibili solo vecchi TinTin, Mafalda, Mordillo, fumetti sudamericani ed est europei. È stato in Italia che ho scoperto l'importanza del fumetto e del graphic novel come linguaggio artistico. Sono un disegnatore che si esprime anche attraverso il fumetto. Per «Il canto del dolore» ho esplorato il mio lato di disegnatore più che di fumettista o narratore-illustratore.

Dieci anni in Italia: tracciando un bilancio?
Quando avevo 20 anni, ero contrario all'idea di partire. Come molti altri, credevo di dover rimanere e contribuire al recupero dell'Iran dalle mani di governanti oppressivi. Dopo il movimento verde del 2009, che si è protratto per due anni senza raggiungere gli obiettivi previsti a causa della violenza del regime, ho cambiato idea insieme alla mia compagna, un'illustratrice. Dopo 10 anni dico che l'Italia non mi ha deluso affatto. Ho scelto di immergermi nel lavoro. Non ricordo l'ultima volta che ho fatto una vacanza. Da fuori, poi, ho compreso meglio i problemi legati al mio Paese.

Illustrazioni, video, film: quali le tappe fondamentali e cosa la diverte di più fare?
Mi sento più libero, divertito ed espressivo quando disegno. Esprimo le mie sensazioni in modo spontaneo e originale, dando vita a queste visioni su carta. Un esempio sono i disegni per «Il canto del dolore».

Il disegno come dissidenza è una scelta di vita? Un modo di tentare una rivoluzione pacifica attraverso l'arte?
È una scelta imposta dalle circostanze. Nato in Iran sotto la dittatura religiosa, ho presto capito che l'arte può essere utilizzata come una potente arma al servizio di cambiamenti reali e significativi, anche pacifici. Penso che l'effetto di questa forma di dissidenza sarà vissuto da diverse generazioni, non solo da quella che porta la rivoluzione alla «vittoria finale».

Il suo impegno è testimoniato dal graphic novel «Nato in Iran»: quanto può significare in questa ricerca di umanità e di libertà la mostra di Santa Giulia, frutto dell'incontro con Brescia Musei?
Il mio desiderio è narrare storie collettive anziché limitarmi a una prospettiva esclusivamente autobiografica. Qui a Brescia, grazie all'invito del Festival della Pace di Brescia e del presidente Filippo Perrini a due live painting durante incontri con l'artista Zoya Shokoohi, la scrittrice Sara Hejazi e l'attivista per i diritti umani Pegah Moshirpour, ho scoperto un valore aggiunto che cercavo. Volevo testimoniare storie appartenenti a tutti. Molti dei disegni presenti nella mostra sono stati realizzati direttamente durante gli interventi di artiste, attiviste e scrittrici mentre parlavano di fronte al pubblico al Santa Giulia. Sono grato che tutto ciò si sia trasformato in una mostra grazie all'attenzione e all'apprezzamento di Brescia Musei e del direttore Stefano Karadjov, che ne ha concepito l'idea. Ringrazio anche la mia cara amica, Zoya Shokoohi. È stata lei a scrivere i testi che accompagnano e interpretano i miei disegni.

Propaganda, guerra, ribellione e militanza: fra dieci anni potremo sostituire queste parole con democrazia, pace, condivisione e tolleranza?
Conoscendo la società iraniana, ritengo che da questa delusione emergerà un altro movimento, sempre più evoluto e maturo, con idee più chiare, che alla fine prevarrà. Credo sinceramente che, al di sotto di questi conflitti, arresti, violenze, manifestazioni, impiccagioni e censure, e dietro a tutta questa dittatura, esista una società giovane e sveglia che può guidare l'Iran verso un futuro libero e democratico.

Sono rimasto senza fiato vedendo le opere e le boccette per trattenere il respiro da regalare a chi non ne ha: cosa pensa che resterà nel cuore e nelle menti di chi vedrà questa mostra?
Sono rimasto a bocca aperta anche io. È un'arte che parla di persone libere e delle loro sensazioni, senza pensare minimamente a chi detiene il potere politico. È il risultato dell'impegno sociale e umano di Zoya.

Da Bologna a Brescia: come le è sembrata la nostra città nell'anno della Capitale della Cultura?
Qui a Brescia ho trovato un pubblico e una città con idee artistiche e culturali belle, mature e stabili. Tornando a Bologna, ho incontrato amici e colleghi che erano passati per Brescia durante l'anno da Capitale della Cultura. Mi piace il legame culturale che si sta costruendo tra le città italiane. Nel nostro caso iraniano, dico spesso che è solo la cultura che ci salverà, e ringrazio Brescia per aver dedicato uno spazio all'Iran.

Cosa le lascia questa mostra e cosa farà adesso?
La mostra mi ha lasciato più speranza e fiducia nel continuare a lavorare. C'è ancora spazio per lavorare liberamente per scopi legittimi e validi, spesso negati dai poteri. Sto lavorando sulla nuova edizione di «Nato in Iran» con un racconto inedito: sarà in ristampa a marzo. E sto scrivendo il mio secondo libro che sarà pubblicato sempre con Canicola edizioni.

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