L'INTERVISTA

Valeria Marmaglio

di Gian Paolo Laffranchi
«Nei corpi che io ritraggo c'è la bellezza dell'autenticità»

Dall’idea l’immagine. Dall’empatia, l’entusiasmo. Il meccanismo causa-effetto che anima l’arte di Valeria Marmaglio è limpido come la poesia che dipinge sui volti che fotografa. «Bodies» che non sono solo corpi, quelli che hanno inaugurato il 2023 del MaCof con un progetto che vuole raccontare la realtà descrivendo un’umanità senza filtri. Bellezza che non può prescindere dall’autenticità, canoni estetici svuotati dai formalismi per mostrarsi nella loro nuda sostanza. «La verità»: ciò che cerca nei suoi scatti. «E i miei scatti... sono io».

Nata a Brescia. In una casa quanto artistica?
In famiglia la vena c’era, qualche pazzerello non mancava: chi faceva teatro, chi disegno. Nessuno faceva fotografie.

Decisiva Brera.
Ho studiato e mi sono formata a Milano, sì. Ma l’accademia di belle arti era considerata una perdita di tempo all’inizio, dai miei.

Cosa facevano?
Avevano un bar a Borgo Trento, Il Grillo, tanti anni fa. Poi hanno venduto, sono andati in pensione. Mio papà Luciano non c’è più. Per quanto riguarda l’accademia, mi capiva un po’ meno di mia madre Elena.

Figlia unica?
Ho una sorella maggiore, Daniela.

Era la piccola di casa.
Esatto.

Cosa voleva fare da grande?
Volevo fare la veterinaria. O la psicologa. O la filosofa.

Vasi comunicanti, a ben vedere: si tratta sempre di voler capire, andando oltre la superficie, ciò che appare.
Anche per me.

Cosa le piaceva fare?
Disegnare. Per questo sono andata in accademia e mi sono iscritta a pittura. Disegno anche adesso, prima di fare fotografie. È un’attitudine. Spesso ho in mente un’immagine e la metto in pratica fotografando, anche se a volte sul set succedono cose impreviste, magìe. A volte fermo le persone che mi ispirano per fare una foto. Ormai non ho più vergogna e fermo chiunque senza problemi.

Cosa l’attira?
È l’aspetto esteriore a stimolarmi inizialmente a livello visivo, ma ho imparato con «Bodies» che dietro ogni superficie c’è qualcosa.

Il primo approccio con le istantanee?
La cattedra di pittura che avevo scelto fra le varie in accademia era legata all’arte contemporanea, con installazioni, in stile biennale. I corsi complementari di cinema e fotografia erano i miei preferiti. Ho fatto lezioni serali per capire se la fotografia potesse davvero piacermi, cimentandomi con macchina analogica e diapositive. Sono arrivata tardi a quest’arte e l’ho vista come mezzo per esprimermi, non come fine.

Le è venuto facile da subito?
No. Le prime foto erano orribili, ma dietro c’era sempre un’idea.

E c’è stato uno snodo?
Sì. Mentre facevo i corsi, lavoravo per pagarmeli e per 9 anni ho fatto matrimoni, ho cominciato così, assieme ad una fotografa di Desenzano. Lavoravo anche in un negozio e questo mi aiutava a trovare spunti, idee. Ma ho smesso e mi sono dedicata solamente alla fotografia quando mi sono accorta che non riuscivo a fare i miei scatti, quelli che avevo in mente. Ho avuto insegnanti bravi: Carla Cinelli, con cui ho fatto il primo corso nel 2004, Tiziana Arici, Bruno Sorlini.

Oggi la fotografia in molti ambiti è sinonimo di marketing.
L’approccio pratico è considerato fondamentale. Io però fatico, la mia visione è molto poetica.

C’è un mercato anche per la fotografia che cerca la poesia.
Sì, per fortuna. Oggi comunque è tutto in evoluzione, bisogna star dietro al progresso e fare fotografia non significa solo scattare, devi destreggiarti fra tante cose in questo lavoro, i social hanno inciso parecchio. In fin dei conti si tratta di trovare un punto di equilibrio. C’è un target per ogni cosa e difatti ci sono colleghi che fanno di tutto. Io no, vado sempre a finire lì, a concentrarmi sulle persone.

E così è nato «Bodies».
Da anni volevo fare lavoro sul corpo, ma il progetto vero e proprio è nato nella mia testa durante la pandemia. Un giorno ho pubblicato su Facebook una mia foto con l’ascella pelosa, dicendo ironicamente che come i vicini coltivavano l’orto anch’io coltivavo il mio orticello. Mi sono esposta. Ho pensato alla mia famiglia, a mia sorella che non va in piscina perché si vergogna, a quanto cioè tutti ci facciamo condizionare dal corpo. Il lockdown per come l’ho vissuto io è stato un azzeramento, una rinascita, un’autoanalisi. Ho notato la richiesta di contatti ravvicinati da più parti, ho visto persone che postavano il loro sederone in mutande: «Beccatevi il mio pandoro». Un menefreghismo generale.

E, da un altro punto di vista, la ricerca spudorata di attenzione.
Anche disperata. Si trattava anche di scudi, una forma di protezione dall’esterno. Ho contattato una persona con cui avevo fatto foto, ho spiegato cos’avevo in mente, fotografare corpi reali, autentici. Aldo, il mio compagno, mi ha regalato una macchina analogica a pozzetto. L’ho usata per «Bodies». Quando ho iniziato a pubblicare foto, la gente mi ha scritto per partecipare e la cosa si è ingigantita soprattutto quando gli scatti sono diventati una mostra approdata al MaCof, dove a gennaio ha inaugurato il 2023 della rassegna dedicata alla fotografia bresciana. Per questo motivo ho lanciato il crowdfunding con Produzioni dal Basso: le richieste ormai sono tantissime e prossimamente io vorrei spostarmi anche fuori Brescia.

Nell’anno della Capitale della Cultura qui la fotografia è sempre più sotto i riflettori. Ha un sogno da realizzare?
Fotografare solo ciò che voglio fotografare. Ora sono assorbita da «Bodies», dall’idea di fotografare liberamente un campionario reale di gente comune, progetto che sento mio e che ho voglia di ricominciare: con la macchina che uso devo scattare in primavera/estate perché arriva al massimo a 400 Iso, se il cielo è nuvoloso non posso. All’analogico sono tornata dopo aver studiato il digitale, uscendo dalla comfort zone: è complicato e costoso, però magico. Rispetto alle foto volanti che si trovano sul mio sito Internet e che sono fantasiose, oniriche, «Bodies» è tornare a terra.

Le sue due anime.
Inventare cose nuove, raccontarne di vere: mi piace fare entrambe le cose.

Se lei fosse un film?
Departures, la storia del violoncellista che dopo che l’orchestra in cui suonava si è sciolta trova la sua vocazione vestendo i morti per la loro ultima dimora. Io con la morte non ho un rapporto facile.

Se fosse un libro?
Il maestro e Margherita, di Bulgakov.

Il bene e il male in un classico. Invece a quale fotografo si ispira?
Tim Walker, surreale. Richard Avedon. Bettina Rheims, con le sue Heroines. Arte pazza ma vera.

Se dovesse definire la fotografia?
È un modo di vedere le cose. Immortala ciò che ti sta intorno, ma parte da te: da qualcosa che hai dentro.

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