intervista

Luca Manetti

di Gian Paolo Laffranchi
«Indiana Jones o Jimmy Page? Ho preferito il rock and roll»

Chiedete a chi ama il rock e vive da queste parti di indicarvi i primi «local guitar heroes» che gli vengono in mente. La Brescia che imbraccia al meglio la chitarra sulla scena rock and roll è un club ristretto: Luca Manenti ha la tessera da una vita ormai. E non ha nemmeno cinquant’anni. «Di sicuro sono bresciano, sì - si schermisce e sorride -. Proprio bresciano».

Nato e cresciuto?
A Bovezzo.

Musica fin dalla culla?
Sì perché mio padre Pietro, che purtroppo non c’è più, è sempre stato fisarmonicista. In gioventù ha fatto il suonatore anche per lavoro fino a quando la vita non l’ha portato a percorrere un’altra strada, diventando artigiano. Il ramo paterno è stato tutt’altro che sterile musicalmente: non mancavano i cantanti, da piccolo sentivo suonare mio fratello Giovanni.

Un flashback?
Mio fratello che mi mette in cuffia i Led Zeppelin. Faceva esperimenti, mi usava come cavia alzando il volume.

Il risultato pare evidente.
Mi sono rimasti dentro, i Led Zeppelin. L’abc: loro, i Beatles. Il resto l’ho scoperto dopo.

Ha sempre voluto fare il musicista?
In verità, come gran parte dei ragazzi della mia generazione dopo aver visto Indiana Jones volevo fare l’archeologo. La passione mi è rimasta, la coltivo assieme a quelle per la cucina, per la montagna. Ma quando avevo 6 anni già volevo il pianoforte. Avevo in mente delle melodie. I miei genitori allora mi regalarono una tastiera Bontempi, che ho ancora. Attaccavo adesivi coi numeri sui tasti, ho cominciato così. Poi son passato alla chitarra.

Quanti anni aveva?
Dodici.

Relativamente tardi.
Sì. Ma ho capito presto che qualcosa ci azzeccavo. Trovavo in giro le chitarre di mio fratello e mi veniva facile... Ho continuato. Alla scuola media che frequentavo, al Villaggio Prealpino, c’era un insegnante di musica illuminato che al posto del solito piffero ci faceva scegliere lo strumento. Nella mia classe c’erano tastieristi, batteristi, bassisti. Ognuno si portava ciò che voleva. Tanti miei compagni di scuola hanno mantenuto viva la passione per la musica grazie al professor Gasparetto.

Tre mesi fa Osasmuede Aigbe, voce e chitarra dei Gemini Blue, raccontò più o meno lo stessa cosa sui suoi inizi alle medie a Toscolano Maderno.
Bravissimo lui. Certo, la scuola conta tantissimo.

Nel bene e nel male.
Assolutamente. Può stimolare o scoraggiare.

La sua prima band?
Con ragazzi del quartiere, Paolo Scalini e Marco Guerrini che aveva un anno più di me. Ci chiamavamo, credo, Black Boys, perché avevamo gli strumenti colorati di nero, il basso, la chitarra.

Cosa suonavate?
Elvis, Beatles, Zeppelin. E Neil Young: quello che mi ha insegnato a suonare a tempo.

Quando ha iniziato a fare sul serio?
Coi MinioIndelebile. Nel giro di breve presi la mia decisione: «Farò il musicista». Con loro ho scelto la via del rock and roll.

I MinioIndelebile erano la band di crossover per eccellenza nel Bresciano. Chi vi ha visto in azione allora non può avere dubbi: se ci fosse stato X Factor, al netto della mancanza di una bassista come Victoria avreste potuto giocarvela da Måneskin.
Chi lo sa. Di sicuro avevamo le caratteristiche per piacere a tanti. Ci aveva chiamato come ospiti Red Ronnie, ricordo. I nostri concerti erano selvaggi, indimenticabile il toga party in cui mi esplose l’amplificatore Marshall, puff! Ma la discografia non sapeva cosa fare con un gruppo come noi. Adesso c’è anche un po’ più di democrazia grazie al web.

La domanda chiave per un chitarrista: Fender o Gibson?
Fender. La mia chitarra preferita è la Stratocaster. Con lei sono a casa mia.

Chitarrista di riferimento?
Jimmy Page.

Che però è uno storico gibsoniano.
Sono un chitarrista aperto.

Jack White, Nuno Bettencourt, Vernon Reid o Alex Britti?
Tutti eccezionali, tappe del mio percorso. Ma non ho dubbi: Jack White. Devo però citare Frusciante: con i Red Hot Chili Peppers ha significato il momento in cui ho capito qual era la mia dimensione naturale. Un chitarrismo semplice, sguaiato, nascostamente raffinato.

Virtuoso in jeans, meglio se stracciati.
Esattamente.

Elizabeth Lee, Cek & The Stompers, Bugo... Le collaborazioni non le sono mai mancate. 
Sì. In tempi recenti, sono particolarmente contento di aver fatto incontrare Bugo e Cek Franceschetti. Come immaginavo è nata una forte simpatia, una grande stima reciproca. Con Cek & The Stompers, sotto l'ala della Slang Music di Giancarlo Trenti, stanno maturando cose interessanti. È il progetto che mi sta dando più soddisfazioni. Parallelamente ho Bugo, che è molto simile artisticamente a Cek, peraltro suo grande fan. Un cultore, proprio.

Si trova bene con gli estrosi.
Da sempre. Con Bugo, nel Monolith Studio di Michele Marelli e anche dal vivo, c'è un work in progress che dura ormai da due anni.

Non abbiamo nemmeno citato le collaborazioni eccellenti con Pooh, Turci e Morandi. A un certo punto, come Carlo Poddighe e Jury Magliolo per citare un paio di colleghi bresciani affini, lei ha scelto di seguire la via più vicina al suo modo di essere musicale piuttosto di legarsi a carri vincenti che le avrebbero facilitato la vita economicamente.
Ma io nella vita ho avuto fortuna. Anche nelle scelte. Per esempio, lasciare i Pooh. Me ne hanno dette di ogni tutti quando l'ho deciso, dai Pooh stessi ai miei genitori. «Ti rendi conto che stai rinunciando a una gallina dalle uova d'oro?». Lo feci con la spavaldaggine e l'innocenza dei 25 anni. Non so se oggi ne sarei capace, ma son contento di averlo fatto allora, di aver fatto il musicista girando tutta l'Europa. Il rischio di restare intrappolato in una situazione gigantesca come i Pooh c'era, è capitato ad altri. L'importante per me è capire qual è la tua attitudine e mettere a fuoco l'obiettivo. Devi prendere la mira nel modo giusto. Se ti sovrastimi o sottostimi manchi il bersaglio.

Giochiamo: la band dei sogni di tutti i tempi?
Difficile. Alla batteria di certo vorrei «Bonzo» Bonham.

Torniamo ai Led Zeppelin.
Sì. Poi, alla chitarra naturalmente penso io. Al basso prendo Paul McCartney, perché lo adoro. E come frontman... Josh Homme dei Queens of the Stone Age.

I giovani e il rock: chi le piace fra le nuove leve?
Dico i già citati Måneskin. Sono fra quelli che non li disprezza. Hanno un vero frontman e sono una band. Mi fa sorridere, chiaro, rivedere in loro cliché che per un sedicenne sono una novità. Del resto io avevo scoperto un mondo con i Red Hot, ma chi era più grande di me e aveva già sentito i Funkadelic non poteva avere il mio stesso entusiasmo.

Cosa cerca in una canzone?
L'armonia. Per me il gancio è sempre la nota pop, anche in gruppi come i Foo Fighters. E anche nella trap trovo cose che mi piacciono.

Non è cosa fai, ma come lo fai
.Perché non è il genere a contare. È il livello.

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