Massimo Cotto: «Da Vasco, Renga e Pelù a Dylan e U2 la mia vita in nome del rock and roll L'incontro più pazzo? Con Nick Cave»

di Gian Paolo Laffranchi
School of Rock Forever Young per vocazione, Cotto ha 61 anni
School of Rock Forever Young per vocazione, Cotto ha 61 anni
School of Rock Forever Young per vocazione, Cotto ha 61 anni
School of Rock Forever Young per vocazione, Cotto ha 61 anni

Vado al Massimo? Banale (anche se Vasco è nel suo cuore). Ma è difficile inquadrarlo in poche parole. Cotto va veloce (in nome del rock). Fin dalla sua autodefinizione social: «Deejay su Virgin Radio, RockAndTalk dalle 6.30 alle 9, giornalista, scrittore, autore, narratore». Rapido come un tweet, ma è impossibile racchiudere così il viaggio di una vita, sfogo della passione che lo muove da sempre.

Da quando?
Avevo 16 anni e in auto ascoltai un deejay che spiegava il testo di Thunder Road di Bruce Springsteen.

Come vedere la luce. Prima cosa sognava di fare?
Sognavo di diventare il miglior giocatore di basket del mondo, ma la musica ha vinto e ne sono felice.

Radio, televisione, teatro, giornali, riviste, libri, biografie di grandi artisti e direzioni artistiche, fino all’impegno politico svolto come assessore alla Cultura di Asti: tante tappe diverse sempre in una sola direzione, ostinata e contraria.
Mi diverto, sono entusiasta oggi più di allora. Faccio il lavoro più bello che ci sia e ogni giorno mi ricordo quello che mi disse Mario Monicelli: «Se fai qualcosa che ami hai il diritto di dire che sei stanco, ma non puoi lamentartene».

Dalla Rai di Torino a RaiStereoNotte: in radio ha presentato il concerto di Capodanno del 1989 degli U2 da Dublino, quello di Bob Dylan davanti a Papa Giovanni Paolo II nel 1997, quattro edizioni del Festival di Sanremo debuttando in coppia con Sandro Ciotti, due concerti del Primo Maggio e la prima epica volta di Vasco Rossi all'Heineken Jammin' Festival nel ’98. Momenti storici. Quale l’ha emozionata di più?
Rispondendo d’istinto, ricordo la volta in cui andai in America a intervistare Toni Braxton. Incontro che saltò. Ma girando, di notte, ascoltai una cantante che non conoscevo e rimasi a bocca aperta per la sua bravura. In un momento di scoramento e rabbia per la trasferta a vuoto fui investito da tanta bellezza.

Chi era quella cantante?
Non l’ho mai saputo. Mi resta nel cuore il senso del tutto: la potenza della musica.

Conduttore ma anche autore: dai testi per Carlo Massarini alla giuria di qualità per Pippo Baudo, vent’anni fa.
Baudo è un uomo di parola come pochi altri al mondo. Sanremo è una vetrina che dà la testa a tanti. Ricordo che stavo scrivendo la biografia di Patty Pravo e insieme all’Ariston vedemmo una band di giovani che se la tiravano tantissimo. Spettacolare la battuta di Patty: «Guardali... Si comportano come se esistessero».

Gente dal valore relativo. Assoluto quello di Giorgio Faletti, suo amico fraterno. Le pare che sia sufficientemente ricordato?
No, e ne soffriva. Purtroppo resiste questo pregiudizio nei confronti dei comici, in Italia. Come se non potessero essere dei geni.

I Monty Python lo erano, Ricky Gervais lo è.
Difatti. Giorgio era anche un grande scrittore, ma il grande successo gli veniva imputato come fosse una colpa. Un uomo innamorato del fuoco della vita, capace di comporre un seguito di «Signor Tenente» in pochi minuti, sulla tovaglia di carta di un ristorante, per poi decidere di non farne niente, per non sporcare quel suo brano così poetico con un'operazione che potesse apparire commerciale.

Il più sottovalutato, Falett?
Sì, insieme a Roberto Vecchioni.

Che nel 2014 la volle come personal manager e addetto stampa. Che persona ha conosciuto?
Un gigante che non ha ottenuto tutto quello che merita. Se fosse nato in Francia sarebbe considerato alla stregua di Brel o Brassens. Nelle mie masterclass a scuola faccio sempre studiare «La stazione di Zima». Vecchioni è un poeta.

Come De Gregori?
Sì. Fra di noi c’è un rito: gli mando ogni biografia accompagnandola con un sms, «Quando potrò scrivere la tua?»; Francesco ogni volta risponde «Mi piacerebbe molto, ma preferisco di no».

Nel 2006 ha sposato Chiara Buratti, attrice con cui ha condiviso anche esperienze sul palco; testimone di nozze, Francesco Renga.
Abbiamo un legame forte. Indimenticabili le chiacchierate con lui e Raffaele Checchia, il suo manager, anche discutendo.

Di musica?
No, di papi! Io favorevole a Wojtyla, lui convinto che sia stato Ratzinger a rivoluzionare la chiesa. Tutta notte a confrontarci. Chi ci crederebbe, lo so. E invece. 

Tante collaborazioni, tante biografie. E un’amicizia di lunga data con Piero Pelù, che quando lei lascio la Rai disse «Radiouno senza Massimo Cotto è come la Fiorentina senza Antognoni».
Siamo stati insieme ovunque, anche in vacanza. Piero è un fuoriclasse del palcoscenico, gioca proprio un altro campionato. E chi dice che i Litfiba alla fine sono degenerati nel pop non ha capito niente. Pelù ha dimostrato chi è anche da solista.

Chi è invece Mauro Repetto? Insieme avete appena scritto «Non ho ucciso l’uomo ragno» e lo sta accompagnando nei suoi firmacopie-spettacolo, da Brescia a Verona.
È la prima volta che mi cimento nella biografia di qualcuno che conoscevo solo di fama. Beh, è andata benissimo: tempo qualche ora ed eravamo già entrati in empatia. Mauro è eccezionale. Ha scritto un inno come «Gli anni» e non se l’è fatto accreditare perché non sentiva più sua l’avventura degli 883.

La biografia che vorrebbe scrivere?
Con i viventi mi sento a posto. Avrei gradito le tre J: Janis Joplin, Jim Morrison, Jimi Hendrix. E due amici cari che mi mancano tanto: Lucio Dalla e Vittorio De Scalzi.

Il personaggio più carismatico incontrato?
David Bowie. Voleva stabilire un contatto con chiunque avesse davanti. Affascinante.

L’incontro più incredibile?
Detto che fu divertente la conferenza in cui Mick Jagger lasciò a metà un tramezzino e quando tutti si alzarono ci fu un collega che arraffò i suoi avanzi come un trofeo. L’episodio ai confini della realtà fu con Nick Cave, in un periodo in cui con le dipendenze non se la passava tanto bene. Durante l’incontro con i giornalisti mi vomitò addosso. Andai in bagno per cambiarmi e lavarmi. Mi seguì una collega colombiana, bellissima. Tutto ringalluzzito, pensai di aver fatto colpo. Invece si avvicinò e mi disse «Per favore, puoi regalarmi la tua felpa?». Così fanatica da voler conservare il vomito di Cave.

Più che rock, oltre il punk.
Ancora rivedo la scena.

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