Jim Herrington

«Porto a Brescia la mia idea di fotografia Dai Rolling Stones all’alpinismo questo lavoro è una vera avventura»

di Gian Paolo Laffranchi

I suoi scatti campeggiano su copertine memorabili di Vanity Fair e Rolling Stone, Esquire e GQ. Sono state esposte a New York e Los Angeles, Washington DC e Nashville. Fanno parte di svariate collezioni private, impreziosiscono decine di copertine di dischi pubblicati nel mondo. Tutta opera dello sguardo indagatore di un nomade della fotografia, una leggenda dell’iconografia rock ’n’ roll più sul pezzo che mai: Jim Herrington c’è, lotta insieme a noi e adesso porta il frutto dei suoi oltre quarant’anni di premiata carriera («una vera avventura») all’Accademia di Belle Arti di Brescia. Domani Laba ospiterà nella sede di via Don Vender un workshop in presenza col famoso fotografo americano, documentarista e ritrattista che ha immortalato il furore dei Rolling Stones, il ghigno mefistofelico di Mick Jagger e Keith Richards. L’indipendenza abrasiva di Joe Strummer e dei Rem, il carisma autorale di Tom Petty e Willie Nelson, la personalità magnetica di Morgan Freeman e Dolly Parton. Durante questo appuntamento (promosso nell’ambito del corso di Fotografia coordinato dal professor Mauro Zanchi) Herrington si racconterà a studenti, fotografi e appassionati fra storie, aneddoti, retroscena e trucchi del mestiere: l’attenzione alla luce naturale, l’utilizzo «di un’attrezzatura minima». Co-produttore dell’episodio di Jerry Lee Lewis per la serie HBO/Cinemax «Mike Judge Presents: Tales from the Tour Bus», Jim Herrington viaggia con un kit molto ridotto. Il suo vocabolario visivo prescinde da comfort zone e affini, prevedendo un approccio dinamico, l’apertura a soluzioni nuove e creative. Così è diventato grande, distinguendosi da tanta concorrenza. Questo spiegherà dalle 10 alle 17.30 (iscrizioni a info@laba.edu con oggetto «Richiesta iscrizione workshop Herrington», partecipazione gratuita ma posti limitati).

Quando è iniziato questo viaggio? Quando ha deciso di diventare un fotografo?
Non sono sicuro di aver mai preso una decisione in questo senso. Semplicemente, è successo. Quando ero un bimbo di 4, 5, 6 anni, sbirciavo fra le vecchie riviste collezionato da mio papà dagli anni Trenta e Quaranta: foto di Parigi, del Polo Nord... e di Sophia Loren. Molto presto ho imparato che l’obiettivo di una macchina fotografica poteva essere un modo, il mio, per interagire con il mondo. Per documentarlo artisticamente.

La sua prima macchina?
A 11 anni. Ho iniziato a scattare foto subito e non ho mai smesso.

La fotografia più complicata?
Ce ne sono di difficili, come a volte le persone lo sono. Le celebrità possono essere difficili. Ma sarebbe più difficile fotografare mia mamma senza maglietta dopo la sua mastectomia. O mia nonna sul suo letto di morte. Ci sono istantanee che non ho bisogno di rivedere dopo averle scattate.

La fotografia più eccitante, invece?
Ci sono molti momenti belli. Passare la giornata nel deserto con Cormac McCarthy e scattargli alcune buone foto è stato uno di quelli.

Mercoledì e giovedì sarà a Rovereto, ospite al Mart e alla Laba, per presentare l’edizione italiana di «The Climbers», libro con cui ha vinto il Gran Premio ai Banff Book Awards 2017 e il Mountaineering History Award. Ha reso onore con la sua macchina fotografica ai protagonisti dell’età d’oro dell’alpinismo del secolo scorso, meritandosi il soprannome di «arrampicatore della fotografia»: soddisfatto dei riscontri ottenuti?
Io non avrei mai potuto prevedere niente del genere. Del resto era un progetto privato e tale è rimasto per molti, molti anni. Qualcosa a cui mi dedicavo nel tempo libero e che si è ingrandito pian piano. Dal momento in cui il libro è stato pubblicato, sono passati ormai vent’anni. Sono felice e fortunato che la gente abbia risposto bene, accogliendo la mia proposta con tanta attenzione. È diventato qualcosa di più consistente e rilevante di quello che avrei immaginato in partenza. E posso dire che sono decisamente contento di averlo pubblicato in Italia.

La creatività è la chiave di ogni forma d’arte?
Non sono sicuro di quale sia la chiave. La creatività è solo una parte di una proposta artistica. Crescendo realizzi quanto duro lavoro richieda quell’iniziale scintilla creativa. Devi dotarti di una costante disponibilità all’impegno, darti una disciplina coerente agli obiettivi. Devi evolverti, imparare, evitare i momenti d’immobilismo. Restare nel tuo flusso, mantenere quella cosa indefinibile che qualcuno chiama stile, altri personalità o punto di vista. Non basta lo spunto di partenza: molte cose finiscono nella betoniera che dà forma all’arte.

Brescia sta cambiando pelle e nel 2023 è stata Capitale della Cultura. Che città si aspetta di scoprire?
Sono molto contento di visitarla e curioso di scoprirla. Ne avevo sentito parlare per anni e anni, ma per un motivo o per l’altro non era mai stato possibile portare la mia idea di fotografia a Brescia. Non vedo l’ora di conoscere la città e le persone che la abitano!

C’è qualche fotografo italiano che stima particolarmente?
Oh, certo che sì. Sono da tanto tempo un fan del lavoro di Mario Giacomelli, sia dei paesaggi sia dei ritratti. M’ispiro a un pioniere come Vittorio Sella che nell’800 ha fatto qualcosa di incredibile lavorando con lastre fotografiche in montagna: uno dei primi, grandi protagonisti del foto-alpinismo. Meraviglioso anche il lavoro di Paolo Roversi nella moda, come quello di Mario Cattaneo nella fotografia di strada.

Cosa direbbe ai giovani che vogliono diventare fotografi?
Se ti risulta facile, non lo stai facendo nel modo giusto. Devi studiare i maestri, approfondirne la lezione, e poi fare le tue cose di testa tua. Fallo per te, non per i soldi. Fidati del tuo istinto.

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