l'intervista

Il dj Luca De Gennaro e il «racconto della Generazione Alternativa dei '90 fra rap e brit-pop, grunge e rave party»

di Gian Paolo Laffranchi
Dj, conduttore radiofonico e critico musicale, passando dalla giuria di qualità e commissione artistica del Festival di Sanremo e da Mtv, Radio Rai e Radio Capital

Da un lustro all’altro. Dopo aver riacceso i riflettori sugli anni ’80, indagando il quinquennio ’82-’86 in Pop Life, Luca De Gennaro si dedica ai nineties: «Generazione alternativa. 1991-1995» (Rizzoli Lizard) è una finestra spalancata su un’epoca di apertura mentale e musicale, un periodo in cui si esplorava fra rap e brit-pop, grunge e rave party.

Un mondo che già allora sapeva divulgare una figura poliedrica come poche: manager televisivo e conduttore radiofonico, giornalista, docente universitario e disc jockey, dalle radio private a giuria di qualità e commissione artistica del Festival di Sanremo, con ruoli da guida a Mtv come alla Milano Music Week, da Radio Rai a Radio Capital dove ogni pomeriggio dal lunedì al venerdì insieme a Mixo propone 2 ore di canzoni e aneddoti.

Non c’erano steccati, nei primi ’90. «No frontiere» per citare i Litfiba.
Proprio così. I giovani che allora volevano scoprire nuova musica non avevano barriere. Per la prima volta, visto che in precedenza ci si divideva in tribù contrapposte, metallari, dark, paninari. La generazione alternativa dei ’90 invece sapeva cogliere l’ispirazione punk di un rave.

Le contrapposizioni più che di genere erano derby fra i gruppi: Blur-Oasis, Nirvana- Guns N’ Roses...
Guns-Nirvana fu un passaggio di consegne: i Guns erano l’ultima grande classic-rock-band degli anni ’80, i Nirvana una sorpresa di matrice proletaria anche nelle ambizioni. I Guns volevano restare la migliore rock-band del mondo, Cobain e compagni puntavano a diventare come i Sonic Youth, non aspiravano a un ruolo da star. E Kurt non voleva avere niente a che fare con quelli che considerava dinosauri, come i Guns N’ Roses appunto. Così in America. Per quanto riguarda il brit-pop, la rivalità Blur-Oasis fu davvero un’invenzione dei media, che in Gran Bretagna erano una potenza e influenzavano davvero il pubblico giovane. Cercavano qualcosa che fosse squisitamente loro per staccarsi dal boom dei Nirvana. Avevano già provocato l’esplosione dei Suede, messi in copertina prima ancora che esordissero. Blur e Oasis avevano comunque estrazioni diverse: i primi di Londra, intellettuali, figli del mod, i secondi di Manchester, proletari, figli dei Beatles. Il sale sul piatto del brit-pop, che non a caso rimane ancora molto facilmente raccontabile.

Non un manuale, ma un racconto corredato da playlist.
Lungi da me l’idea di fare qualcosa di didascalico, esistono già saggi dettagliati con la storia di quegli anni. Io ho avuto la fortuna di essere un po’ in mezzo alle cose, discorso che valeva anche per il mio libro precedente, e penso che sia arrivato il momento di trasmettere il senso, l’importanza di quel mondo anche a chi non c’era.

Si rendeva conto della ricchezza musicale di quegli anni?
No, né io né i miei coetanei avevamo questa consapevolezza, ma è normale: durante una rivoluzione sei immerso nel presente, soltanto dopo capisci cosa realmente è successo. Ma capivamo, questo sì, che la musica stava cambiando. Per questo andai dal mio capo alla Rai: «Dobbiamo fare un programma che intercetti questo sentimento nuovo», gli dissi. «Qualcosa che non sia solo una carrellata di canzoni, che parli a una generazione nuova che non ha barriere».

Così nacque Planet Rock.
Il rock non era più un genere ma un pianeta da abitare, in cui c’era posto per l’elettronica come per i graffiti, la techno, la taranta mescolata con l’hip hop, il reggae dialettale, con lo sguardo rivolto anche ai centri sociali. Tutto quello che era stimolante finiva sotto la nostra lente. Volevamo innovare attraverso la radio, sulle orme dei maestri Arbore & Boncompagni. Eravamo un gruppo di giovani autori fortunati nel trovare qualcuno che li stesse sentire: il nostro capo illuminato era Eodele Bellisario, senza di lui non avremmo fatto niente. Credo che le innovazioni vadano guidate dai giovani, ma con il supporto di persone di esperienza che si fidano.

In Italia per essere capo devi essere vecchio.
Lo dico sempre ai miei studenti, al master in Comunicazione Musicale dell’Università Cattolica di Milano: «Non vi auguro di lavorare per me, spero di avervi come capi». Io voglio un capo di 25 anni, non di 65, che si prenda sulle spalle le responsabilità e quando ritiene si rivolga a me, che ho l’esperienza per consigliarlo.

Quanto era forte trent’anni fa il rock italiano? A Brescia potevamo vantare band come Timoria e Scisma.
Musica che non invecchia, la loro. Omar Pedrini, Paolo Benvegnù, sono cantautori degni del massimo rispetto, non a caso ancora in circolazione perché capaci di lasciare il segno. L’esplosione della scena in Italia fu nella seconda parte degli anni ’90, quando i gruppi si moltiplicarono: Subsonica, Bluvertigo, Afterhours; nel libro io racconto la prima, esperienze personali comprese: ci sono le mie avventure al fianco di Almamegretta e Frankie hi-nrg mc nel rap, con Lory D nella techno.

Linus, citandola fra i grandi esperti della radiofonia, ha garantito su queste colonne che la linea di Radio Capital sarà sempre di più quella di una grande credibilità musicale. La trasmissione quotidiana con Mixo spazia fra i generi come non mai, dai Bauhaus al Torero Camomillo: è la sua più coraggiosa di sempre?
È un concetto veramente avventuroso che abbiamo interpretato sempre con grande ironia. Io e Mixo siamo cresciuti insieme, ci accomuna anche l’abitudine di non prenderci troppo sul serio. Quando Linus ci ha detto «Fate quello che vi pare», l’abbiamo preso in parola! A volte esageriamo un po’ e poi facciamo autocritica, ma in generale cerchiamo di mettere musica che ci piaccia e che possa piacere a un pubblico che ne sa. In maniera scanzonata, con semplicità. Ricordo come faceva Enzo Biagi: rivolgeva domande semplici, ma le pronunciava seduto davanti a una libreria dai mille volumi. Cercava la semplicità, ma con un grande bagaglio di conoscenze alle spalle.

Ha visto cambiare tante epoche dal 45 giri agli album, dai vinili a cassette e cd, i video, il web, le piattaforme. La prossima svolta sarà l’AI?
L’intelligenza artificiale per me è un po’ come la trap: ho gettato la spugna. So di non capirla fino in fondo... E per il momento sto bene così. Sono dalla parte dell’intelligenza naturale.

Il disco anni ‘90 da cui non si può prescindere?
«Blood Sugar Sex Magik» dei Red Hot Chili Peppers. Non stanca mai, è una sintesi di quel periodo: rap, rock, funk, c’è dentro di tutto.

«Per fare questo mestiere dovevi andare in giro, metterti le scarpe e uscire»: il giornalismo è ancora quello descritto da Gianni Minà?
Ho dedicato il mio libro a Gianni: sì, quel giornalismo non è mai tramontato. Penso a Cecilia Sala, per esempio.

Due anni fa presentò Pop Life a Librixia: la rivedremo a Brescia per Generazione Alternativa?
Mi farebbe piacere: a Librixia mi sono trovato benissimo e a Brescia torno sempre volentieri.

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